Domani, 17 novembre 2021
Valerio Mastandrea parla di sé e del suo amico Zerocalcare
«Ho appena finito di vedere la serie di Zerocalcare. Sono impressionato, addirittura commosso, è straordinaria. È un trip. Una figata pazzesca». Vado dritto al punto, con il sollievo – raro – di avere incontrato un oggetto pop che ho amato senza riserve. Il successo mainstream che si è conquistato Zerocalcare racconta di idee date forse troppo presto per sconfitte: l’autentico, il personale, la capacità artigianale del fare, l’identità e addirittura una idea di militanza.
Valerio Mastandrea, collegato da un hotel che dà su Piazza Unità d’Italia a Trieste, dove si trova a girare il sequel di Diabolik con i fratelli Manetti, mi dice che immagina di sì, che la serie sia molto bella, ma che lui non l’ha vista. Ma come, chiedo, com’è possibile? Dice che è un mese che chiede a Zerocalcare di mandargliela ma non gliel’ha mai mandata, che può solo intuire perché io mi sia commosso, ma non ne sa molto. Conosce ovviamente le scene interpretate da lui – è sua la voce dell’armadillo-coscienza di Zero; oltre a quello, poco altro.
«No, non ricordo cosa ho doppiato e quando. Ricordo solo di aver riso moltissimo e di aver pensato – io che sognavo di doppiare dei Disney a Natale mi ritrovo con questo vicino che mi dà le battute, che fa le contro scene».
Dimmi come, dove e quando è nato il tuo rapporto con Michele.
«Non ho nessun rapporto con Michele. Siamo stati costretti ad ammettere che ci conoscevamo già ancora prima di farlo realmente. Purtroppo stiamo sulle cose quasi nello stesso modo, io con qualche anno più di lui e lui con qualcuno in meno. Voglio vedere come invecchia però, come ci arriva all’età mia guardando le cose così. Sorprende comunque uno sguardo quasi comune sulla vita vista la differenza d’età. Credo che sia lui che è vecchio come me, non io giovane come lui. Anche i riferimenti culturali nei suoi fumetti riguardano più la mia generazione che la sua. Non so perché abbia subìto questo invecchiamento precoce. Ma è un problema suo, non mio. È sempre un problema suo!».
D’accordo, ma su cosa si basa questo conoscersi “a prescindere”?
«Quello che ci accomuna è il fare un mestiere che serve a entrambi non solo per campare ma anche per riempire e incanalare ciò che siamo senza perdere di vista la vita e le sue dinamiche, i propri interessi, lo stare al mondo in maniera critica, inquieta e turbolenta. E, nel suo caso molto più che nel mio, militante. La sua militanza è tuttavia una cosa sulla quale ci si prende anche un po’ per il culo, perché è molto difficile rendere compatibili il consenso – che non è che uno chiede, ma il nostro lavoro è fatto di consenso – a una militanza politica più radicale. Mi viene da chiamarla militanza culturale, che non so che cazzo vuol dire, forse un punto di incontro tra militanza politica e lavoro culturale».
Insomma, ad accomunarvi è il senso di colpa.
«Sì, abbiamo un senso di colpa costante e motivatissimo. Due che hanno avuto la fortuna di trovare il posto dove mettere tutto il disagio e l’inquietudine che li tormenta e che sanno perfettamente che tutto ciò che li inquieta e tormenta è fatto da persone che quel posto non hanno quasi mai la fortuna di incontrarlo».
Michele racconta di fatto sé stesso e anche tu in qualche modo, nonostante la diversità tra le cose che fate...
«Io ho cominciato a 21 anni, nel 1993, un periodo nel quale cominciava a decadere il rapporto tra pubblico e cinema italiano. Mentre Michele è stato uno dei primi insieme a Gipi e a pochi altri a far comprare le graphic novels italiane. Però prima hai detto una cosa importante: è vero, lui usa sé stesso nel fumetto. Ci somigliamo perché a me è sempre stato detto che quando entro in un personaggio porto me stesso. Su questo possiamo essere simili nonostante il mezzo che usiamo e di conseguenza il linguaggio in cui ci muoviamo: l’uso che facciamo di noi stessi. Entrambi “ci” usiamo dentro quello che facciamo. Lui si racconta, si mette in scena direttamente mentre a me, da anni viene attribuita un’aderenza ai personaggi mai distante, quasi fastidiosamente naturalistica, mai interpretativa. Non mi offende sta cosa eh, sia chiaro. Ho solo trovato, dentro il mio lavoro, la possibilità di usare il mio sguardo su cose e persone mettendomi nei panni di qualcun altro. Una rara forma di comodissima terapia».
Zerocalcare è la periferia, ma è una periferia diversa da come è stata spesso raccontata…
«Michele ha cambiato la narrazione della periferia, dei margini, sociali e soprattutto culturali. A mia memoria è stato il primo a rivendicarsi il territorio, lontano dal glamour, dalla gentrificazione e da molto altro. Esalta la periferia, non la condanna, non si piange addosso mai. È uno che dice «“io sto bene dove sto perché succedono un sacco di cose, ma che cazzo ne sapete voi!”. Quando per la prima volta Michele ha parlato di Rebibbia lo ha fatto con mezzi e temi complessi, uscendo dalla retorica della periferia piagnona, dell’emarginazione. L’ha capovolta e l’ha potuto fare perché ha gli strumenti intellettuali per farlo. È colto il bastardo».
Penso che Zerocalcare stia provando a fare un passo ulteriore rispetto alla strategia di sopravvivenza dell’autoironia cui penso si sia condannata la nostra generazione, anche se in questa storia il meccanismo autodissacratorio è sempre dominante. Ogni volta che dice esplicitamente quello che pensa – o meglio sente – immediatamente c’è la battuta di chiusura che ricrea quella distanza da sé stessi che è appunto l’autoironia.
«Michele usa l’autoironia come lasciapassare di tutte le cazzate contraddittorie che pensa. Si perdona così. Ed è il meccanismo che la mia generazione ha attuato per sopravvivere a dei cambi radicali del mondo in cui crescevamo. Noi, figli di gente sopravvissuta agli anni Settanta, partivamo già con una bella valigia piena di merda e la totale difficoltà a capire quale fosse il nostro ruolo nella società, spesso costretti a essere padri dei nostri padri… poi analogico, digitale. Adolescenti negli anni Ottanta, se non rispondevi a dei codici precisi eri una merda, poi sono arrivati gli anni zero in cui lentamente è sparita la piazza, il dialogo ma anche le botte e sono cominciati i messaggini. Ne abbiamo avuti di cazzi dal punto di vista generazionale!. Io penso che siamo ancora vivi solo perché ci siamo presi un po’ per il culo e perché abbiamo dissacrato tutto il dissacrabile. Quindi la penso esattamente al contrario di te su questo. E penso che Michele abbia la stessa autoironia della nostra generazione e mi sorprende, perché lui è decisamente più giovane. È vero quello che dici, lui fa proprio così, dice e si distacca, e somiglia molto a me nella vita. Ma basta dire che ci assomigliamo perché per tante altre cose poi non ci assomigliamo manco per il cazzo».
C’è anche un tema politico che andrebbe ribadito più spesso, senza timore di sembrare pedanti, perché penso sia cruciale. Avere vissuto la fine delle ideologie, anche in senso “micro” – la sezione del Pci nella quale mi portava mio padre ad esempio – ha contribuito fortemente a quella difficoltà a “sentire” il proprio ruolo e dunque aderire a esso e a valori condivisi senza il diaframma patologicamente ipercritico del tic autoironico. Io forse ho iniziato a uscirne quando è nato il mio primo figlio, ma c’è voluta la seconda per fare davvero pace con quel che sono. Non con il mondo, ma con me stesso un po’ sì.
«Infatti non è il mondo in cui ti trovi che ti definisce. Ma paradossalmente la post ideologia non genera per forza persone senza ideologia, anzi io penso che invece quello sguardo più universale sulle cose del mondo Michele l’ha sviluppato perché ha vissuto intensamente la strada e la militanza – e lo dico in una accezione molto positiva. Essere ideologici non è una brutta cosa secondo me».
I suoi ricordi di Genova mi colpiscono quando penso che avrà avuto quindici anni… noi ne avevamo già 28 o 29 quando eravamo lì.
«Appunto. Ok, ma mo’ passiamo oltre. Non è che sono il biografo di Zerocalcare…».
Ahahhaa. Però questa cosa che dai voce alla coscienza-armadillo di Michele ti condanna a questa posizione – una coscienza peraltro cazzara, cinica e spesso vigliacca. Il tema principale della serie è il terrore di muoversi; costringersi fermi in quella posizione nella quale ci si mette in aereo prima dello schianto e smettere di vivere aspettando la catastrofe.
«La coscienza di Zerocalcare è un verme; è l’unico uomo che ha la coscienza più sporca di lui. È strategica e truffaldina, vigliacca e strisciante nel suo essere depositaria di grandi verità. Ma nel momento delle scelte rimane una coscienza conservativa e quasi reazionaria».
Sì è una specie di coscienza-principio di realtà che gli dice come stanno le cose e non come dovrebbero essere o come dovrebbe essere lui.
«Diciamo che è il meccanismo paraculo dell’autoassolversi sempre. Mettere in campo una voce come quella dell’armadillo è anche un escamotage non solo a uso del racconto ma anche utile umanamente e intellettualmente per l’autore, per fermarsi quando sta andando alla deriva; arriva l’armadillo e lo rimette a terra. È uno strumento indispensabile al racconto di Michele. Ne La profezia dell’armadillo c’è una scena nella quale Zerocalcare ha otto anni e già parla con l’armadillo piccolo. Non è un amico immaginario. L’armadillo simbolicamente rappresenta la responsabilità prematura di quelli come noi, quelli cresciuti con le chiavi di casa a sei anni, quelli chiamati alle armi un po’ troppo giovani. Michele come me è cresciuto così, e dunque l’armadillo può essere anche questo. Nell’accezione comica invece è semplicemente un vero pezzo di merda, uno dei personaggi più disdicevoli che io abbia mai interpretato».
Oltre al cazzeggio in romanesco c’è l’incredibile capacità visionaria di estrarre dalle quotidiane trivialità – come l’aria condizionata troppo potente in treno – una serie di trip lisergico-catastrofico. Il mondo è un costante pericolo, fatto di spettri angoscianti, proprio come in una fiaba per bambini. Il tutto filtrato dal teatro della coscienza, l’Armadillo e i suoi amici. Il risultato è talmente efficace da essere imprevedibilmente universale.
«Sì. La cosa che sto per dire potrebbe ammazzarlo all’istante, ma i suoi lettori si identificano con lui moltissimo. Sono lettori che vanno dai vent’anni ai cinquanta o sessant’anni. O lui è un alieno che riesce a parlare di qualsiasi cosa con persone di ogni età sembrando coetaneo di tutti, una specie di rettiliano, oppure è veramente capace di trattare temi universali in maniera molto diretta e anche scaltra nel dire qualcosa chiedendo immediatamente scusa per averla detta. È uno che perlustra il disagio d’opinione e d’azione in maniera veramente unica. Sicuramente il contesto romano aiuta, perché il romanesco non è un dialetto, il romanesco è tempo di pensiero e di battuta; la sagacia, il cinismo e la resilienza papalina. La sopportazione».
Sì, ma per me Zerocalcare è un’eccezione. Detesto in tutta franchezza il romanesco come lingua franca dello showbiz italiano…
«Ma i primi a detestare ciò a cui ti riferisci sono i romani stessi. Nel lavoro di Michele tutto ciò è sublimato; non è solo un modo di parlare, è un modo di entrare uscire dalle cose».
Ma infatti dietro a questo trovo dei riferimenti alla cultura cosiddetta alternativa anglosassone, in special modo quella non londinese… nella sua stanza disegnata, se non sbaglio, c’è la locandina di This is England, un film-manifesto del disagio urbano, della vita di strada, del conflitto politico e delle sotto-culture. Credo che alla fin fine la parlata dialettale e borgatara sia uno strumento ed è per questo che funziona così bene e che, a mio parere, ha vendicato un uso volgare e ossessivo del romanesco. Tornando a Strappare lungo i bordi, mi sembra comunque una bella notizia per l’animazione italiana…
«L’animazione italiana è molto sottovalutata, specie dalla “pseudo” industria cinematografica. Lo dimostrano alcuni titoli che hanno avuto modo di essere prodotti solo con un grande supporto dall’estero. Ma il problema persistente, film d’animazione o no, è la distribuzione, trovare il mercato anche per film così è molto complicato. Finché non si regolamenta quell’aspetto del sistema staremo sempre a parlare delle stesse cose. Forse, in questo le piattaforme possono aiutare davvero. A me piacerebbe vedere sempre più film e serie animate italiane, anche perché gli autori che abbiamo sono davvero bravissimi. Penso a Simone Massi, a Davide Reviati, a Zuzzu. Spero davvero che Strappare lungo i bordi apra un binario dove partiranno e arriveranno tanti treni».
Penso che nessun altra forma espressiva – quando ben maneggiata, e Zerocalcare direi che è Master of Art – consenta la stessa libertà creativa, una densità di idee anche visive non paragonabile a null’altro se non forse ai videogiochi…
«Per quel poco che ho visto io guardare questa serie è come prendere un respiro profondo e poi stare in apnea per venti minuti, assorbendo una quantità di informazioni incredibile prima di respirare di nuovo…».
A me è venuto in mente l’immagine del trip, tanto per essere ancora anni Novanta: è avvolgente, entri in un mondo assurdo e scaleno che poi puff, scompare all’improvviso. E la qualità visiva è notevole…
«Ci sono una velocità e una densità tali, sei colpito da una serie di stimoli che non ti fanno male e quando finisce è come se avessi dormito e avessi fatto mille sogni meravigliosi, te li ricordi tutti e vai avanti. È completamente bidimensionale, grezzo ma raffinato, il taglio è veramente nuovo… dici ma allora l’hai vista? Ti ribadisco di no, ma ora mentre mi fai pensare a delle stronzate da dire, qualche immagine di quando ho doppiato mi viene in mente».
Insomma è indie.
«Guarda queste sono parole che mi fanno schifo, fin da ragazzino, quando sentivo “punk-rock”, “progressive”… dovevo capirlo che saremmo arrivati a etichettare qualsiasi comportamento o attitudine, dovevamo capirlo che saremmo arrivati ai social network soprattutto per dare un nome a qualcosa o a qualcuno».
Tu sei considerato un attore indie, sappilo.
«Già essere considerato un attore può bastare. Poi gli aggettivi, le definizioni contribuiscono solo a dare spallate alle piccole certezze costruite nel tempo. La spallata che temo di più è dovermi ridurre a doppiare l’Armadillo per tutta la vita. Lo dico non per una corsa all’indigenza ma perché credo sia una delle cose più divertenti che io abbia fatto. E ammettere che è merito di Zerocalcare mi addolora».
Senti, se, come strillava la copertina de L’Espresso, Zerocalcare è «L’ultimo intellettuale d’Italia», il penultimo chi è?
«Che domande. Stocazzo».