Corriere della Sera, 17 novembre 2021
Le battaglie di Indro l’ambientalista
Chissà come avrebbe reagito Indro Montanelli se avesse saputo che una cerimonia del premio a lui dedicato si sarebbe svolta, nella piazza della sua Fucecchio, in un nuovo cinema e teatro che Gian Antonio Stella definisce «un anonimo monoblocco, ancor più grande di prima che assomiglia più a un ospedale, un’assicurazione, un palazzo di giustizia». Un’autentica, ma funzionale, bruttura.
Q uella del rifacimento della piazza centrale di Fucecchio fu una delle tante Battaglie perse – titolo del libro di Stella edito da Solferino – del grande giornalista, inviato ed editorialista per decenni del «Corriere» oltre che fondatore del «Giornale Nuovo» e della «Voce». Persa in casa. Ma ne condusse, con qualche prezioso risultato, tante altre. Come quella per salvare Venezia dall’acqua alta, tanto per citare la più importante. O quelle contro l’autostrada per Cortina, la «rapallizzazione» di Portofino, i vandali del patrimonio artistico italiano, l’assalto edilizio in Sardegna e nelle Dolomiti, l’avvelenamento delle acque e la strage di alberi. Il tutto nell’Italia del boom economico. Quando dell’inquinamento si curavano in pochi, tra cui instancabile il pioniere Antonio Cederna. E la foga del benessere oscurava sensibilità ambientali, la cultura del bello appariva un ostacolo alla modernità. Gli stessi difetti che oggi stigmatizziamo nei Paesi in via di sviluppo, refrattari ad adottare misure contro il riscaldamento climatico, ma messi in pericolo da tutta l’anidride carbonica che abbiamo spacciato noi. Prima di loro.
La lista delle battaglie ambientali di Montanelli – anche se lui non amava l’etichetta di ambientalista – è lunga. E, particolare curioso, semisconosciuta. Ingiustamente rimossa. Forse perché a sinistra non si voleva riconoscere questo merito al destrorso e conservatore Indro. Va segnalato che, a differenza di ciò che accade da noi, in Europa sono spesso i movimenti di centrodestra ad avere un’anima verde. «L’amor per la natura non è di sinistra. Non lasciamo che venga commesso anche questo scippo, mi raccomando». Montanelli era un liberale dalla parte del patrimonio pubblico, a tutela dei beni comuni e contro gli egoismi privati, sintetizza Stella. Con tutti i suoi «umori fucecchiesi», capace di prendersela anche contro i veneziani o i fiorentini. Non era incline a cercare il consenso dei lettori, assolvendoli sempre. «Una città si salva – scriveva in una delle sue ultime Stanze sul “Corriere” – solo se i suoi cittadini vogliono salvarla». Un’amara verità. Non c’è crociata d’opinione o progetto che tenga. Senza educazione civica e volontà popolare non si ottiene niente.
Questo passaggio vale il libro. Perché dobbiamo pensare a che cosa sarebbe accaduto, per esempio nella città lagunare e non solo, se le inchieste di Montanelli – che precedettero l’Acqua Grande del 1966 – fossero state accolte con meno diffidenza, meno processi. «Una delle campagne stampa più educative e coraggiose dell’Italia postbellica» scrisse il celebre storico inglese Denis Mack Smith. Occasioni perdute era il titolo di un duro commento del 31 dicembre del 1968. Montanelli ce l’aveva con il neonato governo Rumor. «La discussione, quando si è parlato di Patto Atlantico e di Sifar (l’Ufficio affari riservati della Difesa, ndr ) è stata vivace ma nessuna voce, né tra i partiti di maggioranza né tra quelli di opposizione, si è levata per chiedere all’onorevole Rumor cosa intendeva fare per salvare Firenze dall’Arno e Venezia dall’Adriatico». «Lì per lì la città lo salutò come un eroe – spiega Stella – ma dopo un po’ fra denunce, scambi di accuse, cause in tribunale, i veneziani si convinsero che l’acqua alta fosse colpa sua e lui gettò la spugna». Del Mose, il sistema di paratie mobili, Indro non parlò mai.
Una nuova minaccia nell’Italia dei veleni. Così venne titolata un’inchiesta che apparve sul Corriere il 9 gennaio del 1973 nella quale Montanelli denunciò le troppe e insicure raffinerie sparse un po’ ovunque nella Penisola, da Marghera in giù. «Ciò che abbiamo fatto finora – scriverà in seguito sul suo “Giornale Nuovo” – è del colonialismo industriale, servito soltanto a distruggere quanto di buono c’era nel Sud, aggravandone i disagi e mettendone in crisi i ceti più produttivi a beneficio di quelli parassitari».
Diffidò delle strategie di grandi gruppi pubblici e privati, ma aggiunse in più occasioni che sarebbe stato sleale prendersela sempre con politici, industriali, dirigenti e burocratici. «Quest’estate – scrive in una Stanza – ho battuto le coste della Calabria, e mi sono ammalato di fegato nel vederle sfregiate da un’urbanistica e da un’architettura delinquenziale. Ma la voce di chi denuncia questi scandali si spegne nella generale indifferenza».
Montanelli fu un cacciatore pentito, ma non troppo. «Come toscano di razza contadina, sono un bracconiere e uccellatore di lungo, anche se inglorioso, corso». E cacciò pure di frodo. Ma, citando Mario Rigoni Stern, provava una profonda nostalgia per la caccia «quella vera non la smania di ammazzare. I balzi di gioia del tuo cane quando ti vede staccare, prima dell’alba, il fucile dalla parete e l’immersione nel bosco con tutti quei fruscii misteriosi».
In un elzeviro sul «Corriere della Sera» del 18 luglio del 1958, confessò che avrebbe voluto reincarnarsi in Heinrich Schliemann, tale era la sua passione per l’archeologia, che nelle sue inchieste trovò sciaguratamente condivisa da tanti tombaroli, predatori dell’arte, saccheggiatori seriali. E purtroppo, come scrisse in un articolo del marzo del 1966, spesso più efficienti di archeologi e sovrintendenti. Nella Roma che amava si imbatté in alcuni ragazzi che, indisturbati, si stavano portando via pezzi della caserma dei granatieri a ridosso delle Mure Aureliane. «Quei guaglioncelli se la stavano mangiando boccone a boccone» scrisse in un articolo del giugno 1958 dal titolo Vandali della cosa pubblica ma gelosi del proprio orto. «Ogni italiano difende con accanimento le proprie cose. Ma nessuno, o quasi nessuno, difende le cose degli italiani, cioè quel patrimonio collettivo di cui nessun altro popolo al mondo possiede l’eguale. Noi ne siamo fieri solo a parole».
Sono passati solo 63 anni. Di battaglie perse, ma forse non perse del tutto. «Tenete bene a mente il motto degli hidalgos – scrisse in un’altra Stanza – la sconfitta è il blasone delle anime nobili».