Corriere della Sera, 17 novembre 2021
Il calcio maestro di vita
Dopo il trionfo mondiale del 1982 che cambiò l’umore del Paese, fu organizzata un’amichevole a Roma per festeggiare. Venne scelto un avversario considerato addomesticabile: la Svizzera. Gli azzurri però avevano ancora la testa al Sarrià e al Bernabeu. Così gli elvetici espugnarono clamorosamente l’Olimpico. Frastornati, gli eroi di Enzo Bearzot mancarono la qualificazione agli Europei 1984 (vinti poi dalla Francia di Michel Platini).
La Nazionale che a sorpresa è diventata campione d’Europa quest’estate era senz’altro meno forte di quella del 1982. Allora una generazione che aveva incantato il mondo quattro anni prima in Argentina conquistò un trofeo storico contro l’Argentina di Maradona, il Brasile di Zico, la Germania di Rummenigge. Il trionfo inglese è stato la consacrazione per due formidabili difensori di 34 e 37 anni, Leonardo Bonucci e Giorgio Chiellini, e l’affermazione di un gruppo non eccelso ma coeso, cui ognuno ha portato un tassello: la parata decisiva di Donnarumma, i due gol di Chiesa, il tiraggiro di Insigne, il rigore di Jorginho (l’ultimo prima di una serie di errori), la scoperta di Pessina, la conferma di Barella, il tendine sacrificato da Spinazzola...
In comune con il 1982 c’è il fatto che, dopo un trionfo meritato quanto inatteso, la Nazionale si è rilassata.
Gli infortuni degli atleti, le disavventure finanziarie del c.t., la fortuna che ci era stata amica ed è divenuta avversa: tutto si tiene, e le congiunture astrali non si ripetono. Ma se la squadra campione d’Europa deve giocarsi la qualificazione ai Mondiali in un complicato spareggio, all’evidenza c’entra anche il vizio nazionale di sopravvalutarsi, in particolare nella buona sorte.
Ovviamente accostare il calcio alla vita e alla politica è spesso fuorviante. Però insomma per noi italiani il calcio non è soltanto uno sport. È un grande romanzo popolare, è la nostra forma di epica, in cui Ettore e Achille sono incarnati di volta in volta da Meazza e Piola, da Rivera e Mazzola, da Totti e Del Piero (certo, pure da Coppi e Bartali). E se un singolo campione può essere anti-italiano, uno sport che si gioca in undici – anzi ormai in ventitré – ha inevitabilmente a che fare con il carattere nazionale e con la fase che il Paese attraversa.
Non è certo che noi italiani, come si ripete in ogni occasione, diamo il meglio di noi stessi nei momenti difficili. Di sicuro diamo il peggio quando ci sentiamo troppo sicuri. Quando pensiamo che ormai sia fatta. Quando ci illudiamo che altri abbiano già risolto tutto per noi.
Questo non significa che siamo privi di talento, anzi. Gli stranieri ce ne riconoscono molto, in ogni campo. Ma quando pensiamo di essere superiori – agli avversari e al destino – di solito ci complichiamo la vita. Se, ad esempio, credessimo di essere già fuori dalla pandemia, di aver acciuffato definitivamente la ripresa economica, di essere al riparo dai guai grazie al premier e alla sua larga (per ora) maggioranza, allora dovremmo prepararci al peggio. Se invece ci rendessimo conto di dover consolidare sia l’immunizzazione di massa, sia la ricostruzione del sistema produttivo e delle infrastrutture, sia la stabilità e l’efficienza della politica, in tal caso davvero il meglio sarebbe davanti a noi. Poi magari scopriremo che pure lo spareggio per il Mondiale, se affrontato con lo spirito giusto e senza timori, potrebbe non rivelarsi un ostacolo insormontabile per i campioni d’Europa. La storia, come diceva il poeta, talora non è maestra di nulla che ci riguardi; ma il calcio sì.