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 2021  novembre 17 Mercoledì calendario

Intervista a Stefania Auci

Auci, a chi sta scrivendo quei messaggi sul telefono?
«Sto facendo la ramanzina alla mia allieva. È andata all’interrogazione senza dirmi niente, ma come si fa?».
L’allieva che lei segue come insegnante di sostegno, a Palermo?
«Sì e giacché ci sono mi piacerebbe sapere anche che cosa stanno combinando i miei due figli, mo’ gli mando un vocale».
Lei sa di essere una delle pochissime autrici di best seller che non hanno alcuna fretta di parlare del nuovo libro?
«Le dirò di più: quando ho mandato alla casa editrice il seguito dei Leoni di Sicilia ho vissuto in apnea per giorni, ero terrorizzata dal verdetto. Il direttore editoriale mi telefonava ma senza dirmi che lo stava leggendo, altrimenti sarei morta d’ansia. Ah, ecco che mi hanno risposto i figli. Dicono che stanno bene».
Lei è in tour per promuovere, appunto, «L’inverno dei Leoni», il nuovo capitolo della saga dei Florio. Insieme i due libri oggi superano il milione di copie, con traduzioni in 35 Paesi. Presentazioni, interviste, tv.
«Ho ottenuto un part time sul lavoro».
È odiosa la domanda che a questo punto arriva, di solito, e cioè: «Ma ce la fa?»
«Molto odiosa. Perché parte dall’assunto che la gestione della famiglia sia cosa solo mia e non anche di mio marito».
Le saranno piovuti addosso veleni ben peggiori.
«Non ne parliamo».
No, parliamone invece.
«Il punto è questo: se un uomo scrive un romanzo storico l’accento finisce sulla trama, sull’analisi strutturale, sull’eleganza della scrittura. Io ho raccontato con documentazione maniacale la famiglia palermitana dei Florio e di che cosa si parla? D’amore, di sentimenti».
Ma parlare d’amore non è mica facile.
«Vero, perché ho riletto da poco Ragione e sentimento e ci ho trovato dei concetti finissimi sulla consapevolezza, sull’età, sulle scelte. Ma quella era Jane Austen».
Quarantasei anni, siciliana di Trapani, palermitana per scelte familiari.
«E sono stata adolescente nella Sicilia degli anni Ottanta. Anzi, nella Trapani degli anni Ottanta, ancora più complicato».
Perché?
«Se lo ricorda lo sceneggiato La piovra? È stato girato lì. Me lo ricordo bene: la città cominciò a essere guardata in modo diverso, era come se si fosse accesa una luce su qualcosa che tutti sapevamo ma alla quale non sapevamo dare un nome preciso. Io sono del ’74, avevo una decina di anni ma percepivo qualcosa».
Un «non detto»?
«Una nebbiolina persistente, un’attenzione vigile. Ricordo quando il padre di una mia compagna di scuola venne arrestato con l’accusa di essere il prestanome di una delle società riconducibili a Matteo Messina Denaro. Eravamo poco più che bambini ma certe cose le sentivamo molto vicine».
E poi c’erano gli attentati, alcuni vicinissimi a casa sua.
«Nel 1983 venne ucciso il magistrato Ciaccio Montalto. Nel 1985 l’attentato dinamitardo di Pizzolungo. Tre anni dopo, nell’88, io ero in ospedale assieme ai miei perché avevamo ricoverato papà, dopo i primi sintomi di una malattia che purtroppo non lo abbandonerà più. Ricordo quel giorno, il 26 settembre, come se fosse oggi: un’ambulanza che arriva a sirene spiegate, una concitazione mai vista».
Chi c’era in quell’ambulanza?
«Il giornalista Mauro Rostagno».
Lei ha visto morire Rostagno.
«Certe cose ti segnano. Ma a decidere davvero il mio destino sono state le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Quando uccisero Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta io ero in gita con la scuola. Ci avevano portato a vedere le tragedie al Teatro greco di Siracusa. Tutto si interruppe di colpo, il prof di biologia ci ordinò di tornare tutti al pullman. Non c’era Internet e nemmeno i cellulari: provi a immaginare un gruppo di adolescenti che non sa perché “è saltata in aria la strada”, come ci dissero. I nostri genitori non potevano chiamarci, la radio trasmetteva notizie ancora non chiare».
Quale fu la sua sensazione più nitida?
«Era molto chiara: “siamo in guerra”, pensai. Perché per noi adolescenti cresciuti nella Sicilia di quegli anni era davvero come stare in guerra. Scusi se mi commuovo ma se ci ripenso mi viene da piangere. Poi ammazzarono il giudice Borsellino e allora io presi la mia decisione definitiva: avrei studiato Giurisprudenza, contro il parere di tutti».
Il parere dei suoi insegnanti?
«Secondo loro non ce l’avrei mai fatta. Convocarono i miei genitori e dissero loro che forse sarebbe stato meglio se non avessi continuato a studiare e se mi fossi cercata un lavoro. “Al massimo”, furono le loro parole, “Lettere moderne”, dove secondo loro si studiava poco. Capisce?».
E invece?
«Io volli fare Legge, mi laureai in soli quattro anni e mezzo con una tesi sulla linea di difesa di Erich Priebke nel processo sull’eccidio delle Fosse Ardeatine. Presi 108 all’esame e sa perché? Perché quella stagione terribile, quella guerra di mafia dentro la quale ci sentivamo imprigionati ha smosso le coscienze e ha convinto tanti di noi a impegnarsi in prima persona. È stato come risvegliarsi da un torpore, anche in fatto di scrittura. Io ho imparato a leggere il non detto, a non essere superficiale nelle descrizioni, a raccontare un tempo altrui con precisione».
Viene in mente che anche altre scrittrici siciliane oggi di successo appartengono (più o meno) a quella generazione. Nadia Terranova, Simona Lo Iacono, Cristina Cassar Scalia.
«Nadia è un pezzo di cuore per me. Credo che questo sia vero. Per noi crescere è stato imparare a vedere i diversi piani della realtà, senza fermarsi al livello più semplice. Condizione essenziale per la scrittura. Ma io vengo da una famiglia dove papà e mamma facevano gli insegnanti, ho due sorelle pianiste. Insomma, gli stimoli ci sono sempre stati, solo che nessuno a scuola mi ha mai incoraggiata, anzi, hanno cercato in tutti i modi di farmi deviare dalle mie passioni».
Lei è molto critica con la scuola, eppure insegna in un quartiere difficile di Palermo, a ragazze e ragazzi con problemi. E non smette.
«Il contatto con questi studenti per me è ancora molto importante. Tenga conto poi che io sono arrivata alla scuola dopo una terribile esperienza di lavoro».
Racconti.
«Mio marito è un funzionario pubblico ed era riuscito a tornare in Sicilia, a Palermo. Io però avevo vinto il concorso a Firenze e mi presero come cancelliere. Quando chiesi il trasferimento a Palermo, per ricongiungimento familiare, scattò subito nei miei confronti un’azione di “mobbing” tanto che mi ritrovai in uno sgabuzzino senza computer né telefono, a ricopiare a mano dei documenti. Avevo a malapena il permesso di andare in bagno o di appartarmi per telefonare a mio marito. Cominciai a stare male, anche se non ho mai preso psicofarmaci, giusto qualche goccina quando è morto mio padre».
E che fece?
«Mi licenziai e raggiunsi la mia famiglia a Palermo. Ero stata due mesi senza vedere mia figlia che aveva un anno, ci rendiamo conto? Cominciai a scrivere, cose piccole, senza nemmeno troppa convinzione, ma avevo un agente. Poi un giorno una persona a me cara mi disse: “Ma perché non racconti la saga dei Florio?”. Non volevo farlo, mi sembrava un’impresa troppo complicata. Però cominciai a documentarmi, soprattutto leggendo un libro chiave, I Florio. Storia di una dinastia imprenditoriale, di Orazio Cancila. L’ho scritto con naturalezza, le cose mi venivano senza sforzo. Scialla, diciamo noi».
Però la scrittura è molto precisa.
«Penso che siano stati anche gli studi di Legge, certe materie ti danno un rigore che serve anche alla letteratura».
Una volta finito il manoscritto?
«Lo diedi al mio agente e il romanzo cominciò a “girare”, come avviene sempre. Però non tutti sanno che ho riscritto completamente le prime sessanta pagine, perché secondo il mio agente erano troppo tecniche».
La Editrice Nord le fece un contratto per due volumi.
«E da lì è cominciato tutto. Oggi sinceramente non so che cosa rispondere a chi mi chiede come vivo il successo, perché a me non sembra di aver fatto qualcosa di speciale. Ho assecondato un istinto di rivalsa, questo sì. È come se adesso stessi rispondendo a quegli insegnanti che hanno cercato di bloccarmi. Al liceo ho avuto un professore di greco che ci umiliava di continuo. Quello dell’insegnante è un lavoro delicato, spesso si fanno danni senza rendersene conto».
Continua a fare nuoto?
«Nuoto, lavoro a maglia, seguo i miei due figli adolescenti. A modo mio. Una volta, durante una delle infinite lezioni in Dad, ho preso il gatto di casa e l’ho messo davanti al computer. Anche su Instagram se si va a vedere le foto che pubblico, molte sono anticonvenzionali. Faccio le smorfie, mi faccio i selfie. E allora?».
È che molti preferiscono il conformismo della «scrittrice pensosa e appartata».
«Ma a seguire queste banalità si perde di vista il talento. Io diffido anche di chi deve per forza incasellare le persone. Quella scrive d’amore, quell’altro fa i gialli. In quanti hanno letto Il seggio vacante di J. K. Rowling ? È il primo dei suoi libri non legati alla saga di Harry Potter. È un libro straordinario, con caratteri così nitidi che ti fa venire voglia di scrivere».
È rischioso secondo lei parlare di scrittura femminile e maschile?
«Più che rischioso lo trovo inutile. Perché per me la scrittura non ha sesso. È quella migliore».