Corriere della Sera, 17 novembre 2021
Un giro nel reparto Covid del Bambin Gesù
Il Covid dei bambini sta in tre finestre affacciate sul mondo: mamme e figlioletti in isolamento dietro le imposte, padri in giardino con borsoni e giocattoli, amore e ansie a distanza da consegnare in portineria. «Se tutti noi ci vacciniamo ma non vacciniamo i più piccoli, stiamo preparando per loro una trappola tremenda: il virus non è stupido, andrà dove trova una porta aperta», mormora il pediatra Andrea Campana.
Cinquantadue anni, bresciano (con ancora nel cuore lo strazio per la sua città piagata dalla pandemia), Campana è l’anima della trincea contro il morbo eretta a marzo 2020 dal Bambino Gesù qui a Palidoro, frazioncina di Fiumicino in fondo all’Aurelia (teatro nel 1943 del sacrificio di Salvo D’Acquisto), le dune della bella spiaggia a un passo: quasi 750 bimbi e ragazzini ricoverati da inizio pandemia, di cui 33 in rianimazione, due morti (con altre fragilità, entrambi a Roma nella sede del Gianicolo); i due piani della bassa palazzina immersa nel parco naturale dell’Agro Romano sono stati e sono una porta girevole di angosce e speranze, emozioni e dolori. «Quando mio figlio è sparito dietro i vetri della terapia intensiva mi è caduto il mondo addosso», scrive riconoscente Rossella, mamma di un sedicenne: «Ma ci siete stati accanto fino alla nostra uscita, grazie per essere così diversi da tutto il resto». Il resto sono «i momenti bui».
Campana ci riceve al padiglione Paolo VI, davanti ai reparti, nella cappella dell’ospedale da tempo in disuso per precauzione sanitaria. E spiega subito come il bersaglio della malattia stia cambiando per effetto dei vaccini. Da marzo 2020 a oggi l’età media dei ricoverati è scesa a cinque anni e mezzo (e il tempo medio dei ricoveri da dieci giorni a tre e mezzo): l’anno scorso si ricoveravano 40 adolescenti al mese, con degenze anche fino a due mesi e un picco di 110 ricoveri a settembre-ottobre 2020 che qui chiamano «effetto Billionaire», a dire la follia delle discoteche come simbolo effimero di libertà estiva. Quest’anno, la scelta di massa dei ragazzi più grandi (due su tre favorevoli addirittura all’obbligo vaccinale secondo una ricerca dell’Ipsos realizzata per Save the Children) ha modificato anche la popolazione del presidio di Palidoro: i più esposti hanno tra i 5 e gli 11 anni, la fascia sulla quale sta per arrivare il via libera all’immunizzazione. Poi si tratterà di superare le paure dei genitori, pure comprensibili: di fronte a un impatto tutto sommato minore, tanti si chiedono se ne valga la pena. «Ma il punto non è vaccinare i bambini per salvare gli adulti, è proprio proteggere i bambini», spiega Campana. Avendo lavorato a lungo nell’ospedale di Itigi in Tanzania, animato dalla coraggiosa suor Incoronata Lemmo, e avendone dunque viste di ben peggiori, si dichiara «ottimista, per natura»: «Perciò non voglio spaventare nessuno, da medico. Ma come papà sono preoccupato, me lo conceda. Questa malattia, se muta, può diventare grave anche per i piccoli, che finora non hanno subito conseguenze troppo pesanti: basta una variante. Sarebbe come disegnare un bersaglio sulla schiena dei bambini non vaccinati. Sotto i 12 anni e sotto i 40 chili non si fanno le monoclonali, i farmaci si usano off label, il vaccino ha senso in funzione preventiva, quando sei in epidemia finisci per rincorrere». Ora la pressione nel presidio di Palidoro è sopportabile, il lunedì sera i piccoli ricoverati sono otto, più quattro genitori e un bambino in quarantena (ma nell’ala accanto al reparto Covid incalza la bronchiolite, che può diventare aggressiva e pericolosa, e al piano di sopra una ventina di letti serve all’osservazione di Coronavirus sospetti, non ancora conclamati).
«Se dici Covid dei bambini dici Covid delle famiglie, quando riesci a farti complice la mamma sei a metà dell’opera», medita saggiamente Gloria Tontini, carica di disegni, temi, pensierini lasciati come ringraziamento dai degenti. Fondamentale caposala dal 2011, s’è battuta nelle corsie come una leonessa da un anno e mezzo a questa parte, «dovevamo essere molto flessibili, secondo le esigenze sanitarie della Regione: il trucco è lavorare tutti assieme, questa è una bella squadra». Ha sopportato padri tabagisti che davano i numeri in quarantena, una mamma nigeriana che le ha sfasciato una porta per disperazione, si tiene nel cuore i «tre fratellini», così li chiamano qui, dimessi sabato scorso dopo un vero calvario: «Avevano quindici, sei e quattro anni, il più grande curava gli altri due come una madre». Il papà dei «tre fratellini» è un No Vax che, ricoverato per Covid allo Spallanzani, ha dato in escandescenze; la mamma deve stare accanto a un’altra figlia in attesa di trapianto: quei tre li avevano adottati tutti, Gloria ha distribuito orsacchiotti e macchinine di plastica per alleviare la paura. Perché non va sempre bene, non è sempre facile.
«Com’è un bambino col Covid? Solo», sospira Daniela Perrotta, medico di rianimazione: «Appena possiamo facciamo entrare le mamme, ma loro si sentono strappati dall’affetto dei genitori, a quattro anni si sentono traditi». Si può guardare Peppa Pig col casco per l’ossigeno in testa, ci si aiuta coi tablet e i cellulari, «ma anche le videochiamate vanno gestite, sono un moltiplicatore emotivo fortissimo: una bambina di 11 anni piangeva appena chiamava il papà, l’abbiamo placata coi cornetti al cioccolato». Poi, certi dolori non si placano, certe cicatrici scavano più a fondo che nei polmoni. Un tredicenne è diventato orfano qui dentro: il Covid gli ha stroncato il padre e lui non è potuto nemmeno andare al funerale. «All’inizio il virus era anche bello, stavamo tutti assieme coi miei genitori e i nonni. Poi sono venuti a portare via il nonno…», annota un ragazzino delle medie nel suo tema.
La salvezza passa attraverso lo sguardo, dicono i mistici. «Qui abbiamo dovuto reinventare sguardi, parole e tono di voce per garantire la serenità a questi bambini e alle loro famiglie», traduce in chiave assai più terrena la caposala Gloria. Ma davvero la fisiognomica della guarigione non è solo materiale, forse. E forse lo stiamo imparando. Campana dice che «i bambini africani ti fissano sempre negli occhi: i nostri figli avevano smesso. Ora, sopra le mascherine, abbiamo ricominciato a guardarci».