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 2021  novembre 17 Mercoledì calendario

Intervista al giovane attore Filippo Scotti

Paolo Sorrentino ha affidato al volto sconosciuto di Filippo Scotti la sua adolescenza senza pelle e il giovane attore lo ha ripagato col Premio Mastroianni alla Mostra di Venezia e l’attenzione di Variety, che lo indica tra i talenti da tenere d’occhio. A 21 anni l’interprete cresciuto a Napoli appartiene alla schiera di artisti italiani che brillano nel mondo, protagonista del film che ci rappresenta agli Oscar, alter ego di Sorrentino. In È stata la mano di Dio (in sala dal 24 con Lucky Red, su Netflix il 15 dicembre) è Fabietto, spensierato nell’estate che porta a Napoli il divino Maradona, spezzato dal dolore della perdita dei genitori, costretto brutalmente all’età adulta. All’incontro in quella che è oggi la capitale del cinema, sul terrazzo dell’Hotel Vesuvio, Filippo ha i capelli più lunghi ripetto al film, un anellino al lobo come Sorrentino; sembra cresciuto. Trabocca felicità e gratitudine, negli occhi lo stupore di chi, malgrado Hollywood e l’approdo ai festival internazionali, non si è assuefatto al successo.
Che significa portare il film qui?
«Poterlo mostrare ai miei, che finora mi hanno seguito da lontano. Dopo Los Angeles è un tornare, con occhi diversi. Sento Napoli ancor più stretta: mi manca ma penso che sarebbe bello iniziare percorsi fuori dall’Italia».
Che idea aveva e cosa ha scoperto di Sorrentino?
«Mi aspettavo il regista da Oscar, ho scoperto Paolo e la sua ironia. Sul set ha avuto delicatezza, pazienza.
Arrivavo con il terrore di deluderlo.
Il primo giorno, la scena in banca con Toni, io che confesso “non ho amici, papà”, l’abbiamo fatta tredici volte. Ricordo la camminata di Paolo, lenta, verso di me, diceva “guarda, non l’hai ancora trovata ma sei sulla strada”. Io pensavo: cazzarola è la fine, è ancora in tempo per cambiare idea… Mi dava indicazioni con poche parole sul set, poi mi mandava messaggi articolati in cui mi rincuorava».
Sorrentino si è riconosciuto nella sua inadeguatezza, timidezza.
«Ero così, sono così. Al liceo un timido estroverso, cercavo di fare battute che non capivano, cavalcavo le prese in giro quando sarebbe stato meglio il silenzio.
Tornavo a casa e mi sentivo inadeguato, avevo brutti voti da comunicare ai miei. Ero superficiale nello studio, grande memoria, ma sul Greco crollavo. Ogni anno avevo debiti e rischiavo la bocciatura.
Portavo da solo avanti la passione per il teatro. La professoressa di italiano mi ha spinto a frequentare un laboratorio di lettura espressiva, mi hanno preso per uno spettacolo di Teatro ragazzi al Bellini di Napoli. Invece che a scuola andavo a lavorare. Ho iniziato a girare l’Italia con un lavoro scespiriano».
Poi è arrivato lo schermo.
«Qualche corto, un micro ruolo in
1994, la serie La luna nera. Il personaggio di Spirto mi piaceva, l’idealismo, la stravaganza. Sul set ero spiazzato dal poco tempo per le prove. Ho imparato la pazienza: sveglia alle cinque, trucco da volto tumefatto e l’attesa tutto il giorno».
Il fermo immagine del film?
«Io, Paolo e Ciro Capano nella scena a Posillipo, tra lui e il regista. Il freddo dell’alba, Paolo che ci chiede di tirare fuori la nostra verità invece che recitare le battute. Non lo scorderò».
Il film corre per le candidature agli Oscar.
«Mi emoziona così tanto che ho deciso che aspetto dicembre facendo finta di niente. Mi godo i viaggi, l’incontro con grandi colleghi. Da solo a un evento a Los Angeles incappo in Alessandro Borghi che mi dà sicurezza, conosco Robert Pattinson: tranquillo, uno slancio da esordiente. DiCaprio mi fa ridere, allunga la mano, “ma sai che ho origini casertane?”.
L’incontro più buffo con Benedict Cumberbatch, esco dal bagno, lui interrompe la conversazione con Michael Keaton: “Filippo!”. Viene da me e mi parla per dieci minuti della scena in ospedale».
Sono arrivate proposte?
«Sì, ma ho bisogno di tempo per decidere, di equilibrio. Vorrei girare in Francia, negli Stati Uniti. E studiare, sono rimasto con il senso di inadeguatezza del liceo. Penso che avrei potuto fare di più».
Forse non sarebbe qui oggi.
«Ricordo il direttore del Bellini, mi porta nel loggione, accende la torcia dell’iPhone: “Leggi le battute”, poi, “mi serve un giovane, sei dentro?
Otto ore di prove al giorno”. Io penso che sono a rischio bocciatura, ai mille problemi… Rispondo: eccomi, sono dentro. Ho seguito l’istinto».