la Repubblica, 17 novembre 2021
Il Vangelo sencondo Warhol
Andy Warhol è la quintessenza dell’artista pop. Ma se qualcuno crede che le sue radici siano rizomi superficiali, allora si sbaglia. E non di poco. La natura iconica delle sue rappresentazioni, infatti, è letterale: discendono dalle icone delle tradizioni tardo bizantina e russo ortodossa. Al Brooklyn Museum una mostra dal titolo Andy Warhol: Revelation (fino al 19 giugno) ce lo spiega bene. Il curatore, José Carlos Diaz, ci dice che essa «esplora il rapporto di tutta la vita dell’artista con la sua fede che appare frequentemente nelle sue opere d’arte». Non si tratta di una novità. Il tema è stato trattato da Jane Daggett Dillenberger in un volume del 2001, ed è appena uscito un saggio sull’argomento a firma di Michele Dolz, edito da Ares. A Roma il Chiostro del Bramante nel 2006 aveva ospitato una mostra sulla religiosità di Warhol che ha esibito circa 80 opere. Andy Warhol: Revelation presenta oltre cento oggetti, tra i quali appaiono materiali rari e oggetti scoperti di recente che forniscono uno sguardo fresco e intimo al processo creativo di Warhol. Alcuni dei lavori in questa mostra non sono stati molto visti prima: disegni religiosi di Warhol e di sua madre, Julia Warhola, degli anni ’50; un Gesù di gesso che dipinse quando era adolescente; alcuni santini e crocifissi – anche quello che fu messo sulla bara del padre, morto quando Warhol aveva 14 anni – e materiali religiosi tratti dagli archivi. Ovviamente sono esposti i principali dipinti della sua epica serie Last Supper (1986), il film sperimentale Chelsea Girls (1966), un film incompiuto raffigurante il sole che tramonta, commissionato dalla famiglia de Menil e finanziato dalla Chiesa Cattolica, e altro ancora.
Vediamo un Warhol religioso che sembra fare a pugni con l’immagine delle sue tele che riproducono le lattine di pomodori Campbell o le riproduzioni seriali di “icone” popolari quali le bottigliette di Coca Cola, Marilyn Monroe o Marlon Brando. Un artista eccentrico e trasgressivo che utilizza a livello colto le immagini della cultura di massa apre l’espressione artistica alla dimensione massificante e mercificata. Di quale “rivelazione” parla, dunque, la mostra di Brooklyn?
Andy era Andrej. Warhol era Warhola. Nasce il 6 agosto 1928 da una famiglia di immigrati cecoslovacchi. Sua madre, rutena, era cattolica di profondi sentimenti religiosi. La frequentazione della chiesa di San Giovanni Crisostomo a Pittsburgh ha lasciato in Andrej una traccia profonda. A casa sua, dopo la sua morte, fu trovato un altare per la preghiera e nella sua camera da letto i segni religiosi sono ben presenti. Il parroco della chiesa newyorchese di Saint Vincent Ferrer a Lexington Avenue vedeva quest’uomo fermarsi quasi quotidianamente lì e accendere una candela. Il critico d’arte John Richardson durante l’elogio funebre di Warhol, pronunciato il primo aprile 1987 nella cattedrale di San Patrick di New York, concludeva: «La conoscenza di questa pietà segreta inevitabilmente muta la nostra percezione di un artista che aveva ingannato il mondo facendogli credere che le sue sole ossessioni fossero il danaro, la fama, il glamour, e che potesse essere disinvolto fino all’insensibilità più totale».
Warhol ha sia ostentato che oscurato sia la sua fede sia la sua sessualità. È necessario dunque spacchettare le contraddizioni struggenti che funzionano come motore della sua produzione artistica. Ed è quel che fa questa mostra. C’è qualcosa di elusivo e di “scivoloso” nell’opera warholiana. È vero: Warhol ci ha ingannati, il suo è un camuffamento. Chi considera la sua opera come il trionfo delle merci, dei colori del consumo e del successo mondano, perde di vista il gusto amaro dell’effimero che appare evidente, in realtà, considerando le sue “icone” di Marilyn Monroe (appena morta) o Jacqueline Kennedy (ritratta dopo la morte del marito), Liz Taylor (malata di alcolismo), Elvis Presley, ma anche Lenin (ritratto a morte e imbalsamatura avvenute). La felicità sembra essere il retro della tragedia.
Vanitas
vanitatum. Warhol esorcizza il timore della perdita e della dissoluzione ostentando la morte nella sua riproducibilità mediatica.
I suoi procedimenti artistici sono sostanzialmente due. Il primo è l’isolamento e la dilatazione delle immagini, come avviene in molti ritratti. In questo caso l’immagine è frontale e risulta da un montaggio di inchiostri molto carichi (i capelli neri o gialli, le labbra rosse, l’ombretto blu…) contro uno sfondo di colore astratto (arancione, verde…). Il secondo è la ripetizione seriale del soggetto rappresentato, dai ritratti alle icone del consumo (Coca Cola, Campbell,…). Così in una stessa opera l’immagine viene ripetuta in un’unica tela a modello della sua ripetizione continua delle immagini pubblicitarie dell’industria di massa o dei media. Il fondo oro delle icone orientali qui si traduce direttamente nel fondo dal colore astratto, vivido e acceso, dei suoi ritratti. La staticità della rappresentazione orientale è data dal senso di “fermo immagine” che si sperimenta guardando le sue opere, sia che rappresentino persone, sia che rappresentino oggetti. I quadri di Warhol sono vere e proprie icone pop. L’icona di Warhol è dunque tecnicamente figlia dell’icona bizantina, ma ne è – a livello di significato – l’esatto opposto, la sua immagine speculare. Non è immagine dell’eterno e della pienezza, ma dell’effimero e del vuoto. La bellezza salverà il mondo, diceva Dostoevskij. Sì, ma quale bellezza, si chiede Warhol nella sua Filosofia: la bellezza non ha «niente a che vedere col fatto che stai bene: pensa solo a tutti i belli che si prendono il cancro. E poi un sacco di assassini hanno un bell’aspetto».
Ma arriviamo al punto, e direttamente: questo vuoto è lo spazio per una “rivelazione” divina, come suggerisce la mostra di Brooklyn? Sì e no. Lo spazio per Dio è e resta uno spazio vuoto. Allora: no, non c’è spazio per Dio nell’arte di Warhol. O meglio: a mio avviso Dio è sempre e soltanto “fuori” rispetto alla sua opera d’arte. E questa, però, è la garanzia della sua salvaguardia. La prova ci sembra sia data, tra l’altro, proprio da alcune opere ad acrilico e serigrafia a inchiostro su tela di soggetto sacro, come la Raphael Madonna-$ 6.99 e The Last Supper, dove le immagini di Raffaello e di Leonardo sono riprodotte più volte nella stessa opera, nella quale poi viene anche inserito il cartellino del prezzo (6.99 dollari), che ricorda impietosamente come ogni cosa sia in vendita, anche l’arte e dunque anche ogni rappresentazione del sacro. Anche in questo atteggiamento vediamo una forma di nostalgia dell’icona orientale, la potenza di rappresentazione della quale sarebbe ormai irrimediabilmente perduta, e dunque da preservare nella sua inviolabilità a livello del tutto privato. Da qui l’inevitabile ironia della replicazione seriale delle icone pop.
In ogni caso è un inganno cercare la religiosità di Warhol nelle sue rappresentazioni di soggetti sacri, che invece sarebbero l’indizio della sua assenza. La religiosità artistica di Warhol è radicata nel suo tentativo di spingere il suo Dio al fuori della tela, della rappresentazione artistica, ormai condannata ironicamente e parodisticamente a rappresentare feticci o, per dirla con lo stesso Warhol, il «Vitello d’Oro», un affascinante fantoccio dai tratti divini.