La Stampa, 17 novembre 2021
Di Maio dice no al patto tra leader
Quanto possono essere lunghi quarantacinque mesi? Quanti strascichi possono lasciare tre anni e mezzo di trattative, strategie, cambi repentini di governi e di alleanze? Avvicendamenti di leadership, scontri dopo i quali si dice: mai più, di te non mi fiderò mai più. È contro tutto questo che la proposta di Enrico Letta fa fatica a passare. Non si tratta solo di mettere insieme i leader di forze politiche che su tutto, non solo sulla manovra di bilancio, vogliono cose diversissime. Si tratta di chiedere loro di fidarsi l’uno dell’altro. Perché se ti siedi a un tavolo da gioco, di una cosa vuoi essere certo: che nessuno, una volta distribuite le carte e allineate le fiches, sia pronto a barare.
Così Giuseppe Conte può anche rilanciare, e tentare di allargare un dialogo che ancora non c’è alle riforme costituzionali. Ma la verità è che dentro il suo stesso Movimento maturano dubbi non detti e autentiche paure. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio – in una riunione fatta con un gruppo di parlamentari – ha riconosciuto al segretario pd la volontà di tenere unita la maggioranza e di voler agevolare il lavoro del governo. Allo stesso tempo, però, ha espresso tutti i suoi dubbi sulla riuscita dell’operazione. «Non vorrei che questo tavolo finisse per diventare solo una vetrina per Renzi e Salvini».
Il leader di Italia Viva è il responsabile della fine del governo giallo-rosso e, come ha ricordato lo stesso ex capo M5S nel suo libro Un amore chiamato politica, è colui che già nel 2018 aveva fatto saltare il tavolo già avviato col Pd andando a Che tempo che fa a dire «con i grillini mai». Non è quindi solo per quel che è emerso in questi giorni dalle carte dell’inchiesta della procura di Firenze sulla fondazione Open, che il capo della Farnesina non pensa sia una buona idea ridare centralità a Matteo Renzi. Basta vedere quel che è accaduto ieri in Senato, dove si sono scontrati in aula la capogruppo M5S Maria Domenica Castellone e quello di Italia Viva Davide Faraone – con le relative curve a urlare e fare «buuu» – per capire che non c’è aria di dialogo. Quanto a Salvini, è stato sempre Di Maio a definirlo «una delle persone più false che abbia mai incontrato». Non ha cambiato idea: «Conosciamo entrambi i due Matteo – è il ragionamento fatto in queste ore – sappiamo bene che anche se prendono un impegno, poi non lo mantengono. La storia lo testimonia: quando si sono seduti attorno a un tavolo in questi anni, l’hanno fatto solo per dare scossoni al governo, aprendo poi una crisi». Non è solo il fallimento del patto sulla manovra o sulle riforme, o addirittura sul presidente della Repubblica, che teme il ministro degli Esteri. Ma una fine disordinata e drammatica della legislatura: «Questo tavolo con loro due rischia di essere un pericoloso boomerang. La scusa per dire: non siamo d’accordo, allora stacchiamo la spina».
Che creda o no a un’eventualità di questo tipo, Di Maio lavora da tempo in due direzioni. La prima vede rafforzarsi il suo rapporto con l’ala governativa della Lega. E quindi, con quel Giancarlo Giorgetti il cui viaggio negli Stati Uniti ha aiutato a preparare e con cui va a mangiare periodicamente una pizza. La cosa che più li accomuna, in un match che dovrebbe vederli agli angoli opposti del ring, è la volontà di proteggere il governo di Mario Draghi. Che a loro parere deve continuare per mettere al sicuro i fondi del Recovery e avviare la trattativa in Europa sul Patto di stabilità. È improbabile che Salvini la pensi allo stesso modo e anche per questo il dirigente M5S non vorrebbe che fosse lui a sedersi al tavolo. Preferendo, come forse lo stesso premier, che a gestire le trattative siano le delegazioni dei partiti al governo. La seconda parte della strategia di Di Maio riguarda i gruppi parlamentari: il Movimento ha ancora – nonostante decine e decine di defezioni – il numero più grande di elettori del prossimo capo dello Stato. Una golden share che nella testa del ministro degli Esteri deve essere usata al meglio. «Il Parlamento deve rimanere centrale – dice – anche Giuseppe (Conte, ndr) ha espresso dubbi sul fatto che un tavolo di leader sulla manovra potrebbe essere percepito come lesivo della prerogative delle Camere». E quindi: «Sarebbe fondamentale, piuttosto, che ci fosse la massima sintonia tra i capigruppo in Parlamento, bisogna fidarsi di deputati e senatori. In occasione delle ultime manovre hanno dimostrato di saper trovare la quadra, accogliendo al massimo anche le iniziative delle opposizioni». C’è insomma la volontà di farsi alfiere degli eletti, che ribollono di frustrazione e scontento: per essere stati estromessi dalle apparizioni tv, riservate ai vicepresidenti scelti da Conte. E per sentirsi sempre ai margini delle scelte, mentre vedono il loro leader andare a far festa con il dem Goffredo Bettini. A misurare la temperatura dentro il Movimento sarà l’elezione del prossimo capogruppo alla Camera: che Conte sta cercando di sminare, probabilmente rinunciando a un suo candidato forte come l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma che potrebbe dimostrargli, ancora una volta, come guidare i 5 stelle sia più difficile di quanto pensasse. —