il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2021
Ritratto al veleno di Giuliano Amato
Ogni stagione della nostra Repubblica cova un uovo speciale che invece della sorpresa contiene Giuliano Amato. Finissimo giurista. Arguto politico. Sapiente economista. Pregevole tennista. Svelto nel dire e nel disdire. Candidato anche stavolta all’ultima poltrona della serie, la più sontuosa, quella del Colle, che insegue da una ventina d’anni per incoronare il suo personale monumento a cavallo che lo innalza, nonostante il suo fisico minuto, al cospetto di tutti i giocatori in campo, e insieme lo imprigiona. Perché essendo troppo di tutto, anche nella “forsennata ambizione”, è finito in stallo tra benemerenze e invidie. Oltre a trascinarsi il peso dei conti in sospeso per i molti tornei giocati dai tempi del Centrosinistra, fino a quelli odierni del banchiere Draghi, passando per il collasso della Prima Repubblica, anno 1992, quando, toccando a lui battere da Palazzo Chigi, svalutò del 20 per cento la lira, ma senza mai pronunciare in pubblico la parola “svalutazione”. E in una notte di luglio prelevò dai conti degli italiani gli spiccioli dello 0,6 per mille, per arginare lo sprofondo del debito pubblico (che anche lui aveva scavato) per poi incolpare del misfatto notturno il suo ministro del Tesoro, Giovanni Goria, che da morto non riuscì mai a smentire.
Lunga storia gli corre tra le dita, visto che Giuliano Amato – detto “Topolino”, detto “Eta Beta”, detto “Dottor Sottile” – nacque nel lontano 1938 a Torino da famiglia piccolo borghese. Respirò nell’Astigiano la guerra da sfollato. Studiò a Lucca. Sì laureò in Giurisprudenza alla Normale di Pisa con master alla Columbia University di New York, sua città prediletta per solide ragioni atlantiche. Sposato, due figli. Fu socialista, corrente di sinistra in gioventù, quella che chiamava l’arrembante Craxi “cravattaro”. Ma poi si convertì socialista di centro tavola, più craxiano del titolare, quando Bettino conquistò il partito, anno 1976, congresso del Midas, e poi l’intera nazione invitata all’allegro banchetto degli anni Ottanta, divorato lasciando ai posteri il conto dell’inflazione a due cifre e il debito a nove. Fu l’intellettuale di riferimento negli anni da bere: “Producevo idee destinate alla testa di un altro”, disse con la solita punta di vanità. E pazienza se “l’altro”, che riempiva furioso i portacenere dell’Hotel Raphael, chiamava Norberto Bobbio “intellettuale dei miei stivali”. Il suo compito era risolvere problemi. Meglio se lungo la linea bianca del campo, ai confini della giurisprudenza, della politica, dell’economia, mischiando virgole e commi.
Il trucco che aiutò le tv di Berlusconi
È roba sua il trucco legislativo adottato dal governo Craxi, anno 1984, che consentirà alle tv di Berlusconi di continuare a trasmettere sul territorio nazionale quando la legge ancora lo vietava. È roba sua la cordata di imprenditori – Berlusconi, Barilla e Ferrero – che ancora Craxi, anno 1985, schiera contro Carlo De Benedetti nella battaglia per annettersi il colosso alimentare Sme, ai tempi delle prime privatizzazioni. È ancora roba sua la svendita dell’Alfa Romeo alla Fiat, anno 1987, facendo deragliare, un minuto prima dell’accordo, l’offerta più vantaggiosa della Ford. Per lui, entomologo dei codici, trovare escamotage legislativi è una pacchia, anzi, letteralmente “quasi da orgasmo”.
Come il peripatetico Lord Byron è stato ovunque. Non per innalzare versi, ma per accomodarsi in poltrona con stipendio, allori e pensioni al seguito: 31 mila euro al mese, si disse con magno scandalo. Lui rettificò assicurando che una quota la devolveva in beneficenza, cosa che per buona educazione non si dovrebbe mai dire, specie quando, nei tuoi giochi legislativi, hai tagliato quelle degli altri. Ha avuto sette cattedre, da Roma a New York, passando per Firenze e Modena. Ha presieduto l’Authority Antitrust, innumerevoli comitati, da quello governativo per la Bioetica a quello per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Si è seduto in cima all’Enciclopedia Treccani. È stato presidente dell’Università di Pisa e pure dell’Associazione degli ex Allievi dell’Università di Pisa. È stato consulente di Mario Monti in Europa, di Unicredit e di Deutsche Bank. Nonché membro della Corte Costituzionale, da un anno in qualità di vicepresidente. Basta?
L’arte di allontanarsi durante i naufragi
Neanche per sogno. Dal 1983 ha varcato la soglia della Camera e del Senato per cinque legislature. È stato il sottosegretario principe nei due governi Craxi. Poi quattro volte ministro con i governi De Mita, D’Alema e Prodi. Due volte si è messo in proprio, varcando lo studio nobile di Palazzo Chigi. La prima nel 1992 nominato da Oscar Luigi Scalfaronel mese di mezzo tra i due boati, quello di Capaci e di via D’Amelio. Un anno di governo tribolato nel quale trovò il tempo di varare il celebre decreto Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti e che naufragò tra polemiche furenti, mentre lui si dileguava.
Sette anni dopo tocca a Ciampi issarlo alla presidenza del Consiglio a riparare i danni di D’Alema che due anni prima aveva sgomberato Prodi per poi bombardare i Balcani e finire bombardato alle Regionali: capolavoro della sinistra fratricida, che da allora si studia nei manuali di masochismo politico.
È sua massima competenza allontanarsi dai naufragi. Quando il suo capo s’eclissa in Tunisia, inseguito dalle guardie, lui continua a fischiettare nei palazzi del potere. E in meno di un anno si butta a sinistra. Craxi iracondo lo chiama “un Giuda che strisciava ai miei piedi”. E schiere di socialisti gli rammentano che se il Capo rubava, “lui quei soldi li spendeva”. Ma lui i perdenti li ignora.
Al contrario tutti i vincenti di potere lo annoverano tra gli amici. A cominciare dai tre presidenti che l’hanno sconfitto, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Davanti a Draghi addirittura si genuflette. Ma è capace di farlo anche nei dettagli della vita quotidiana, magari con un banchiere secondario, se serve. Come capitò con Giuseppe Mussari, l’arciduca del Monte dei Paschi di Siena, quando al telefono chiedeva di confermare i 150 mila euro per il Circolo del tennis di Orbetello, dove ancora si allena.
Dicono i suoi antipatizzanti che ha pronta la tela quirinalizia, nonostante i suoi 83 anni. Lui nega, ma nessuno gli crede per colpa della sua “vocazione organica alla bugia”, come Tremonti dixit. Perché anche se fosse vera la sua ultima dichiarazione “stavolta per il Quirinale ci vuole una donna”, gli basterebbe una parrucca e un filo di rossetto per tornare in partita.