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 2021  novembre 17 Mercoledì calendario

Su "Inchiostro simpatico" di Patrick Modiano

Inchiostro simpatico (Einaudi, pagg. 107, euro 16, traduzione di Emanuelle Caillat), di Patrick Modiano, è già nel titolo una dichiarazione d’intenti del suo autore o, se si vuole, la spia di come funzioni la sua macchina narrativa. Come tutti sanno, con quel sostantivo e quell’aggettivo si indica una sorta di scrittura invisibile «che scurisce solo se sottoposta all’azione di una determinata sostanza». In pratica, ciò che a prima vista appare in superficie non è necessariamente la verità e perché salti agli occhi quanto si nasconde sotto di esso è necessaria un’alchimia di mezzi, nonché di sentimenti. Modiano rende ancora più esplicita questa indicazione allorché le affianca l’immagine della camera oscura, strumento che il digitale ha spazzato via assieme alle altre forme dell’analogico: «È in questa specie di camera oscura della solitudine che devo vedere nascere i miei libri prima di descriverli» scrive prestando questa frase a un autore del XIX secolo di cui non fa il nome. Reale o immaginario che sia, il prestito ottocentesco non va però portato oltre, perché Modiano è uno scrittore del Novecento come pochi, totalmente impastato delle tragedie e degli interrogativi di questo secolo.
All’apparenza, Inchiostro simpatico è la storia di una scomparsa misteriosa, quella di una ragazza, Noëlle Lefebvre, la cui identità assomiglia a un rebus: c’è una foto, ma troppo scura per una corretta identificazione, un indirizzo, che però non corrisponde, un fermoposta, dove non arriva più nessuna corrispondenza, un’agenda. Dentro quest’ultima, ci sono sì degli indirizzi, tuttavia incompleti e dei nomi di luoghi e di persone, troppo e insieme troppo poco perché Jean Eyben, l’io narrante del romanzo, in prova in un’agenzia d’investigazione, possa ricavarne indicazioni che abbiano un senso. Poco dopo, del resto, Jean ha abbandonato quel lavoro, anche se negli anni quei frammenti sparsi di un’esistenza rimasta sconosciuta hanno continuato a riemergere e ogni volta ciò che prima risultava indecifrabile e/o invisibile ha di colpo assunto un senso. Soprattutto, Jean si accorge che il modo migliore per ricordarsi è affidarsi all’oblio: è da lì, dall’aver completamente dimenticato, che il caso fa scaturire il ricordo. Quelle che erano apparse semplici coincidenze assumono così un aspetto nuovo, e con rinnovato stupore Jean si rende conto di avere in comune con la ragazza scomparsa nel nulla molte cose rimaste fino ad allora nascoste nella nebbia della dimenticanza: il lago di Annecy, per esempio, certi vicoli deserti e silenziosi vicino al lungosenna, una regione, la Sologne, una città, Roma, l’unica fra le capitali «che aveva il potere di annullare il tempo, persino il tuo passato, come la Legione straniera».
I ricordi, scrive Modiano, sono «come un ricattatore che sei convinto di avere seminato da tempo e che una sera bussa piano alla tua porta...». Tutta la narrativa di questo scrittore, premio Nobel nel 2014, è un tentativo di decifrare il passato, a partire da La Place de l’Étoile, il romanzo che lo rivelò, ventitreenne, al grande pubblico nel 1968, e da Rue des Boutiques obscures, con cui dieci anni dopo vincerà il Goncourt. Meglio ancora, è, come lui stesso scrisse in quel bel libro-intervista con Emmanuel Berl, uno dei protagonisti intellettuali della Francia fra le due guerre, e che non a caso si intitola Interrogatoire, «crearmi un passato e una memoria con il passato e la memoria degli altri». Sempre non a caso, uno dei suoi libri più intimi si intitola Un pedigree e racconta la sua sensazione di essere «un cane bastardo» che fa finta, appunto, di avere una discendenza diversa da quella che gli è propria: una madre anaffettiva, attrice di scarso talento, un padre ebreo e dedito al mercato nero durante la Seconda guerra mondiale, in seguito uomo dai mille mestieri e dai mille traffici, tutti fallimentari. Ragazzo, Modiano si accorge che «più le cose restavano oscure e misteriose, più prestavo loro interesse. Addirittura, cercavo il mistero anche dove non c’era. Gli avvenimenti che evocherò fino al mio ventunesimo anno, li ho vissuti in trasparenza – quel procedimento che consiste nel far sfilare sullo sfondo dei paesaggi mentre gli attori restano immobili nel teatro di posa. Vorrei tradurre questa impressione che molti altri hanno provato prima di me, tutto sfilava in trasparenza e io non potevo ancora vivere la mia vita».
Questo sfondo su cui scorrono le immagini è anche quello di cui è vittima Jean, il già ricordato protagonista di Inchiostro simpatico. Perché anche lui possa vivere la sua vita, è necessario il passaggio al di là dello specchio, un attraversamento, insomma, in cui non si limiti a essere uno spettatore, ma accolga la sfida che il passato gli presenta. Ossessivamente, del resto, i luoghi romanzeschi di Modiano sono tutt’uno con i luoghi reali della sua vita. La città di Annecy, che è un po’ la chiave di volta di questo suo ultimo romanzo, è la stessa che lo vide studente liceale, Parigi e Roma sono a lui particolarmente care e il disprezzo con cui Jean tratta l’ordine cronologico è il suo: «Non l’ho mai rispettato. Per me non è mai esistito. Presente e passato si mescolano in un insieme traslucido, e ogni istante vissuto in gioventù mi appare staccato da tutto, in un presente eterno».
Tutto ciò fa di Inchiostro simpatico un romanzo atemporale e dove alla fine conta poco sapere se siamo negli anni Cinquanta o Sessanta, nel decennio degli Ottanta o dei Novanta, tanto le date e/o le indicazioni non si accompagnano mai a un sentimento e a un riconoscimento della loro epoca, ma restano fluide, di per sé non vogliono dire nulla. È curioso, perché l’arte della memoria dovrebbe anche servire a collocare nel tempo gli eventi, cosa che però, come si è visto, Modiano ha in orrore, e del resto basta scorrere qualche suo titolo per vedere come l’indeterminatezza la faccia da padrone: Dall’oblio più lontano, Ricordi dormienti, Perché tu non ti perda nel quartiere...
Costruito come un’indagine poliziesca, Inchiostro simpatico è in realtà un romanzo d’amore, quegli amori non dichiarati, in quell’età della giovinezza dove si aspetta sempre che capiti sentimentalmente qualcosa e a volte non ci si rende nemmeno conto che è già successa, perché si è troppo distratti per riconoscerla. L’età degli incontri fortuiti, delle lunghe passeggiate, delle prime timide confessioni quando ci si potrebbe interessare a quel qualcuno che si sta imparando a conoscere e poi di colpo la vita ti apre davanti un’altra strada e tutto scompare nell’oblio fino a che un volto, un profilo ti riportano lì dove tutto stava per cominciare e dove tutto ora può ripartire.