Corriere della Sera, 16 novembre 2021
L’inutile rebus degli acronimi
«Amnnpp»: Anche Mattarella Non Ne Può Più. Così sarà ricordato, forse, il discorso del presidente della Repubblica all’inaugurazione dell’anno accademico a Siena. Per carità, l’ha detto con garbo istituzionale: «Non so se siano stati fatti in qualche Ateneo, ma se così non fosse sarebbe utile, studi per approfondire le conseguenze dell’uso smisurato degli acronimi sul linguaggio e sulla facilità di comunicazione». L’ha detto, però: c’è un drammatico problema d’incapacità dello Stato in tutte le sue incarnazioni politiche e burocratiche di farsi capire dai cittadini. Erano anni che lo dicevano i linguisti, lo sottolineavano gli osservatori più attenti, lo riconoscevano perfino pezzi della burocrazia e della magistratura. Lo dice un parere del 2014 del Consiglio di Stato sulla «Definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera» proposta dal ministero della Salute: «Va rilevato come l’intero provvedimento (...) si caratterizzi per una scrittura assai lontana dai buoni canoni di un periodare piano, comprensibile a prima lettura ed elegante e per un uso assai frequente di acronimi e di espressioni in lingua straniera, il cui ricorrere – secondo le regole della redazione dei testi legislativi – andrebbe vietato». Rileggiamo: «vietato». Magari!
E torniamo a quanto scrisse tanti anni fa (batti e ribatti magari serve) il grande Tullio De Mauro: «Dobbiamo essere tutti rispettosi delle terminologie tecniche» e «il matematico deve parlare da matematico» e «i microbiologi non sono obbligati a farsi capire da tutti», ma «l’avviso sulle carrozze ferroviarie no. (...) Deve essere scritto in modo che lo capiscano tutti». Vale per i treni, vale per gli uffici comunali, vale per gli ospedali... Che senso c’è a usare parole defunte come «elasso» o sventagliare a tutto spiano acronimi? Il messaggio ai cittadini è: questo è il linguaggio mio, il territorio è il mio, di qua devi passare. Un’idea padronale del ruolo, del potere, del prestigio... Sintetizzava amaro Trilussa: «Se vôi l’ammirazzione de l’amichi / nun faje capì mai quello che dichi». Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, spiega che per carità, «Gli acronimi possono anche essere utili: pensi al DNA. Quando mai scriveremmo DeoxyriboNucleic Acid? Ormai è una parola intera e molti, più o meno, hanno idea di cosa si tratti. O pensi a Fiat: che aveva dentro la creatività, il futuro... Possono essere perfino belli, talvolta. Il guaio è che troppo spesso questi acronimi vengono usati apposta per essere indecifrabili». «Sarà una coincidenza che tra le sigle più incomprensibili ci siano quelle che riguardano le tasse o il catasto?», chiede Michele Cortelazzo, autore del recente Il linguaggio burocratico (Carocci editore). E risponde: «Niente affatto. Per cominciare, sono sempre nuove, diverse, cambiano continuamente, devi capire che cosa significano e qualche volta non significano niente. Prendiamo l’Isee. Cos’è? L’Indicatore Situazione Economica Equivalente. Cioè?». Il grande Paolo Rossi, sotto un cartello nel quale erano sparse qua e là un delirio di sigle che toglievano il sonno a chiunque avesse a che fare con l’edilizia, l’urbanistica, i regolamenti comunali, si inventò sul palco un rap irresistibile mischiando i «gulp!», «crash!», «bum!» tipo Paperopoli con raffiche di «PdRIc, Poc, Pit, Piau, QTR, Pua, Ctru, Vas, Drag» e via sparacchiando. Gli spettatori, merito dell’attore e di quel testo che nessuno avrebbe potuto mai scrivere, ridevano come matti. Ma era, insieme, agghiacciante.
Scrisse un giorno Indro Montanelli che il miglior augurio che si potesse fare al nuovo governo che in quel momento nasceva era di durare abbastanza per consentire ai cittadini di imparare a memoria il nome dei ministri. Oggi, come scrive lo stesso Cortelazzo, si fatica a mandare a memoria i nomi dei ministeri «come Maeci (ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale), Miur (ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, recentemente suddiviso in due ministeri), Mef (ministero dell’Economia e delle Finanze), Mise (ministero dello Sviluppo economico)» per non dire del ministero dei Beni Culturali dal nome via via ritoccato con l’aggiunta o la rimozione dell’ambiente o del turismo fino a comporre l’acronimo Mibact. Una leccornia, per le mezzemaniche. Un orrore per chi ama l’Italia per la sua bellezza. Dei luoghi, della lingua.
Eppure, questo orrore che avrebbe fatto inorridire Concetto Marchesi incaricato di rivedere la Costituzione perché fosse «in bello stile», è andato a incrociare un fenomeno tutto nuovo lontano mille miglia dai parrucconi burontosauri. Quello del linguaggio legato ai nuovi sistemi di comunicazione. Sedici anni fa lo stesso Tullio De Mauro, nel Dizionarietto di parole del futuro (Laterza) scriveva già: «Parole che comprimono altre, acronimi, sigle ci piovono addosso da tutte le parti. Non è solo americana la mania dei vocaboli sintesi, nemmeno è una mania di scienze semiforti come la chimica, la linguistica formale o l’informatica...».
Il linguista Massimo Arcangeli ne ha scritto in vari libri, su tutti Il Medioevo alle porte : «Velocità, risparmio spasmodico di tempo, coatta celerità di scelta. “Siglato è il mondo”, direbbe oggi Carlo Emilio Gadda. Immetto il PIN per accedere alla SIM, spedisco un SMS e rispondo a un MMS e, per tenere sveglio l’ego, mi sparo una bella foto con l’UMTS di 3G (terza generazione) che è anche MP3, attivo il WAP per navigare in Internet in HDMI...». Ma indimenticabile è lo studio sugli acronimi dei nostri figli e nipoti: «Scrivono in un “messaggese” e in uno “chattese” così fitto di sigle da fare invidia alla scrittura compendiosa degli amanuensi medievali: se un tempo erano i TVB (ti voglio bene) e TVTB (ti voglio tanto bene), CBCR (cresci bene che ripasso) annotati su diari e quaderni o riprodotti sui muri cittadini, oggi nell’era del digito ergo sum è la legione dei concentrati e dei moncherini verbali: “DV6?MMT6TPM”» Traduzione: «Dove sei? Mi manchi molto, sei tutto per me». Fatto è che fra la vecchia incudine e il nuovo martello resta secco l’italiano.