Il Messaggero, 16 novembre 2021
Intervista alla vedova di Luis Sepúlveda
Dieci anni fa, di questi giorni, Luis, con accanto Carmen, inaugurava la prima edizione di Bookcity con un vibrante discorso sulla necessità di sapere leggere «contro il terribile veleno della vecchiaia». E domani, alla cerimonia di apertura della decima edizione della manifestazione milanese, Carmen leggerà i versi di una struggente poesia che ha dedicato al compagno della sua vita, al suo Lucho: «Ignoranti della luce che circondava l’innocenza/eravamo così felici amore mio,/ attraversando tutte le strade/ e ridendo degli ostacoli di pietre e grandine/ con il calore delle nostre mani unite/ che volevano fermare la nostra corsa».
Carmen Pelusa Yáñez, poetessa. Luis Lucho Sepúlveda, scrittore. Cinquanta anni fa, adolescenti innamorati a Santiago del Cile, la poesia e l’impegno politico che li unisce e poi un figlio, la felicità coniugale. Ma all’improvviso tutto si fa buio, orrore. Separati, sequestrati, torturati dal regime di Pinochet. Nessuno sa più nulla dell’altro, inevitabilmente lei lo crede morto, in qualche modo gli sopravvive. E poi esuli per il mondo, lontani dalla propria terra, ognuno percorrendo la sua strada. Si ritroveranno molti anni più tardi. A sposarsi una seconda volta, protagonisti di una infinita storia d’amore Poi Lucho è scomparso, tra le prime vittime del Covid nell’aprile del 2020.
Carmen Yáñez è una poetessa fluente e molto accattivante con i suoi temi preferiti la memoria l’esilio, la poesia stessa, il suo mondo denso di ideali e battaglie civili. E una parola sempre esatta, che non conosce nessun orpello retorico per dire sempre la sua verità, cercando e cogliendo il nucleo del senso. E lo dimostra anche il suo ultimo libro, Senza ritorno pubblicato in Italia da Guanda che riceverà all’Aquila sabato 20 novembre il premio internazionale Laudomia Bonanni, che in precedenza era andato tra gli altri a Evtushenko, Walcott, Takano, Adonis.
Conversiamo con Carmen alla vigilia della sua partenza per l’Italia e le chiediamo di questi suoi versi: «Eravamo così felici e non sapevamo».
Vuol dire che attraversiamo il tempo senza comprendere ciò che possiamo perdere?
«Ebbene sì: a malapena ci rendiamo conto che nonostante certe mancanze, abbiamo quasi tutto per essere moderatamente felici finché un lampo, un uragano, un tornado, un maremoto, una guerra, una pandemia ci toglie brutalmente ogni felicità».
Penso al titolo della sua raccolta di poesie, Senza ritorno. Lo ha scelto prima della morte del suo Lucho?
«È purtroppo una dolorosa coincidenza».
Ma è un’immagine che può racchiudere il senso della sua esistenza?
«Vuole indicare un timore: ogni essere umano che abbandona il suo luogo di origine ne è accompagnato per tutta la sua esistenza. Tornare o non tornare? Oppure disfare per sempre la valigia? Nel mondo sei davvero alla ricerca di un posto che sia davvero definitivo?»
L’eredità più importante che le ha lasciato Lucho?
«Lucho diceva sempre che lui, prima essere uno scrittore, era un buon cittadino e un buon cittadino è colui che si impegna nella società. Mi ha lasciato il suo esempio di essere umano generoso, solidale, empatico».
C’è qualcosa con cui riesce a sopportare questa scomparsa, ad elaborare meglio il lutto?
«Poesia sempre, poesia per sempre».
Mi dica con un verso, una citazione amata, una semplice definizione ciò che è stato per lei l’incontro e l’amore di e per Lucho.
«Cosa resterà di noi/ innamorati/ se non il pomeriggio quando /il sole splende/ sull’assenza? Sono versi di
Memoriale una poesia che si legge in Abitata dalla memoria, la mia precedente raccolta».
So che la vostra canzone era Gracias a la vida di Violeta Parra. La sente ancora?
«Ora più frequentemente, non prima. Era troppo doloroso ascoltarla ancora, subito dopo la sua scomparsa. È un canto, una speranza, il segno indelebile di un incontro».
Sta scrivendo un libro sulla vostra storia d’amore. Continua ancora oggi?
«Sì, e mi è assai utile anche come arma per difendermi dalla mia stessa solitudine».
La poesia deve mettere il dito nell’occhio dell’incredulo, lei ha scritto. Perché?
«La poesia non mente, anzi si espone, si spoglia. Apre le finestre affinché gli uni e gli altri, e tutti insieme, possano identificarsi e reinventarsi».
La poesia può svolgere un qualche ruolo nel cambiare le menti, ad esempio, rispetto alle questioni ambientali, politiche?
«La visione del mondo ci cambia man mano che ci apriamo al mondo e diventiamo consapevoli dell’ambiente, a seconda del contesto in cui ci troviamo nella storia. La poesia non cambia il mondo, ci vuole molta fatica per cambiarlo, ma dà il suo immenso contributo alla coscienza, indicando le piccole cose che la storia ufficiale non racconta ma con cui si costruisce la vita».
Lei scrive versi da quando aveva 14 anni. In tanto tempo qualcosa è cambiato nel suo rapporto con la poesia,
«Certamente, credo che senza di essa non si possa costruire futuro».
Una sua lontana poesia aveva come titolo Resilienza. Cos’è ora per lei la resilienza?
«Ricominciare da me stessa, solo con i miei mezzi».
Cosa abbiamo da imparare dai terribili giorni della pandemia?
«Sii più solidale, stringi la mano a chi non ha nulla, per creare un mondo diverso, senza consumismo, creare senza competere. Speriamo di imparare questa lezione così essenziale».