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 2021  novembre 16 Martedì calendario

Il mio Nobel nato per caso

La serie dei lavori più creativi della mia vita è dedicata ai vetri di spin; mi ha fruttato il Nobel, ma è cominciata assolutamente per caso.
Io mi occupavo di fisica delle alte energie e cercavo di capire problemi connessi alla teoria delle stringhe (tranquillizzo il lettore: non serve che sappia cosa sono i vetri di spin o la teoria delle stringhe). Alla fine del 1978 mi ero accorto che un problema che volevo risolvere era già stato studiato in vari articoli apparsi su riviste. Quando scopro che qualcosa che mi interessa è già fatto, sono contento; è tutto lavoro risparmiato: basta capire cosa hanno scritto gli altri senza doverci perdere troppo tempo. In questo caso gli articoli erano molto chiari ed erano in accordo con quello che mi aspettavo; tuttavia, c’era una piccola nota che aveva attirato la mia attenzione: «Questo conto è basato sul metodo delle repliche, avvertiamo il lettore che il metodo delle repliche nel caso dei vetri di spin dà un risultato sbagliato, inconsistente».
In realtà non c’era assolutamente nessun motivo preciso per cui questa osservazione dovesse interessarmi: l’articolo era chiaramente giusto. Ero abbastanza esperto dell’argomento per convincermi che gli stessi risultati si potevano derivare in un altro modo senza utilizzare queste repliche che apparentemente avevano una dubbia fama. Non avevo nessun interesse per i vetri di spin: non ero al corrente della loro esistenza e una volta capito come erano fatti (per esempio leghe di oro con un poco di ferro) non mi erano sembrati particolarmente importanti: erano un materiale strano con delle proprietà un po’ particolari; ma non potevo mettermi a studiare la fisica di tutti in materiali problematici: mi interessava piuttosto risolvere problemi fondamentali come la natura delle forze che tenevano insieme i quark dentro il protone.
A prima vista il problema mi sembrava insignificante e che l’unica cosa da fare fosse rintracciare l’errore che i miei colleghi dovevano aver fatto (tra me e me ero molto spocchioso), tuttavia c’era un aspetto che mi attirava. Era una questione di pulizia intellettuale: non si poteva lasciare che sulle riviste ci fosse un calcolo inconsistente senza che nessuno lo correggesse. Era quasi una questione di onore professionale. Mi fotocopiai un po’ di materiale, me lo portai a casa per le vacanze di Natale e incominciai ad approfondire la questione.
Mi resi subito conto che l’inconsistenza non era così facile da eliminare: era stata studiata senza grandi risultati da fisici di gran classe, tra cui il famosissimo P.W. Anderson che aveva preso il Nobel l’anno prima e il quasi altrettanto famoso David Thouless, anche lui premio Nobel, ma nel 2016. Tuttavia, queste presenze ingombranti non mi intimidivano, anzi mi facevano pensare che il problema non fosse tanto insignificante e che valesse la pena di lavorarci sopra a tempo pieno. Dopo tre mesi, avevo riempito un grande quaderno di conti, riprodotto molti degli ulteriori risultati che nel frattempo erano stati pubblicati sulle riviste, ma ero completamente bloccato: avevo fatto solo dei piccoli passi avanti che tuttavia non portavano a niente di buono.
A fine marzo del 1979 andai a una conferenza all’Ictp di Trieste, il Centro internazionale di fisica teorica: presentai i miei risultati ad alcuni colleghi e riflettendo su quello che mi avevano detto ebbi un’idea luminosa. Spiegare un’idea di fisica su un quotidiano è qualcosa di molto difficile, se vogliamo essere precisi ed entrare nei dettagli. Qui provo a cavarmi dall’impiccio considerando un problema simile dove l’idea si può spiegare facilmente e senza formule.
Tutti noi conosciamo i poligoni: il triangolo ha tre lati, il quadrilatero ha quattro lati, il pentagono ha cinque lati e via dicendo. Adesso supponiamo di voler fare un poligono con tre lati e mezzo. È chiaramente una follia: i lati sono tre o quattro, qualcuno può essere più lungo, qualcun altro più corto, ma mezzo lato non ha senso. Un poligono con tre lati e mezzo è qualcosa che sfugge all’immaginazione geometrica, non è disegnabile, è un concetto contraddittorio: i lati di un poligono sono oggetti e il loro numero deve essere un intero maggiore o uguale a tre, per esempio un poligono con un numero negativo di lati non ha nessun significato.
Tuttavia, possiamo giocare con la matematica e stracciare l’intuizione geometrica con la fantasia. Chiudiamo gli occhi, dimentichiamoci di molte delle cose che sappiamo e poniamoci questo problema: se esistesse un poligono regolare di tre lati e mezzo (tutti con la stessa lunghezza) quale sarebbe l’area di questo oggetto inesistente? Se lasciamo perdere la geometria e usiamo l’algebra possiamo dare una risposta a questa domanda. Ma se sdoganiamo l’idea del mezzo lato possiamo incominciare a considerare poligoni più strani, per esempio un poligono con sei mezzi lati, anche di lunghezza diversa e addirittura poligoni con tremila millesimi di lato. Ripeto che attualmente tutto ciò non ha nessun significato dal punto di vista della matematica.
Basandomi su questi concetti contraddittori ho fatto una scoperta straordinaria, che è diventata un sentiero luminoso dove hanno lavorato centinaia, forse migliaia di fisici. Utilizzando questa idea priva di senso insieme al metodo delle repliche, facendo girare ripetutamente la manovella dell’algebra, chiudendo parzialmente gli occhi per non vedere l’assurdità del procedimento, si arrivava a risultati assolutamente non contraddittori che i matematici successivamente riuscirono a dimostrare impiegando metodi diversi: infatti poligoni con un numero non intero di lati sono rimasti un boccone troppo indigesto per i matematici che si sono dovuti inventare metodi diversi.
Dopo un anno di lavoro tutto era cambiato: quella che sembrava una contraddizione insignificante si eliminava non correggendo un piccolo errore, ma introducendo una costruzione estremamente immaginifica e profonda di cui io stesso non comprendevo il significato: il problema era stato risolto, ma non capivo il significato fisico delle quantità che comparivano nelle formule finali.
Poi ci sono voluti molti anni di lavoro mio e di tanti altri fisici e matematici per capire quello che avevo fatto e come tutto questo si connetteva alla nascente teoria della complessità.
Devo dire che sono stato estremamente fortunato: ho incominciato a studiare un problema che mi pareva insignificante per la mia ricerca ma che mi incuriosiva, in un anno di lavoro ho trovato il bandolo della matassa, e lo studio pian piano si è arricchito fino a diventare un nuovo capitolo della fisica e della matematica.