Corriere della Sera, 16 novembre 2021
Intervista a Iginio Straffi
Iginio Straffi nasce a Gualdo, minuscolo borgo del maceratese, figlio di una sarta e di un conducente di autobus. «Passavo le giornate a disegnare mentre mamma cuciva», racconta. Riempiva quaderni inventando fumetti e guardando la tv sempre accesa. «Sono la dimostrazione di come la televisione non abbia rovinato la creatività di un bambino», dice. Oggi che ha 56 anni, è il maggiore produttore italiano di cartoni animati, le sue Winx sono un successo in 150 Paesi. Il suo Pinocchio & Friends è atteso in anteprima su Rai Yo Yo dal 29 novembre e poi in mezzo mondo. Come forse prima solo Walt Disney, è soggettista, sceneggiatore, disegnatore, regista, produttore. Nel 2017, la sua Rainbow ha acquisito la Colorado Film. Me contro te con gli youtuber Sofì e Luì è il film italiano coi più alti incassi del 2021.
Primo fumetto disegnato da piccolo?
«La storia di Panilo, un signore normale che, però, poi, sgominava bande di ladri. Avrò avuto sette anni. Dalle medie in poi, ero certo che da grande avrei fatto il fumettista».
I suoi che ne pensavano?
«Mamma diceva: sì, certo, ma intanto studia, coi fumetti non ci si vive. M’incoraggiava solo perché, per disegnare, stavo a casa e poteva tenermi sotto controllo».
Che cosa guardava in tv?
«Ai tempi, ai bambini si lasciava vedere tutto. Ho visto anche Belfagor, uno sceneggiato che metteva molta paura. Poi, c’erano i telefilm per ragazzi, Rin Tin Tin, Zorro, Tarzan, Furia Cavallo del West. Io volevo essere Zorro. I cartoni c’erano solo la domenica mattina: Willy Coyote, Gatto Silvestro... Avevo 13 anni quando arrivarono gli anime, i cartoni giapponesi, Goldrake e, dopo, Capitan Harlock, i primi con uno storytelling in cui i personaggi cambiano, crescono».
Fumetti preferiti?
«Più quelli di Bonelli, con personaggi reali: il Comandante Mark, Zagor, Ken Parker... Dopo il liceo, volli subito dimostrare a mia madre che di fumetti si viveva e andai a Roma a portare disegni alle case editrici. A Tilt, mi diedero una sceneggiatura in prova e tornai a casa con quella. Mi iscrissi anche a Lingue: mamma doveva essere accontentata».
Perché non l’Accademia di Belle Arti?
«La frequentavano ragazzi che pensavano che i fumettisti facessero un lavoro meno creativo degli artisti e che erano felici se disegnavano una fanzine che piaceva a 50 amici. Io avevo già una domanda piantata in testa: come si scrive una cosa che emoziona milioni di persone in tutto il mondo?».
E che risposta si è dato?
«Si devono creare personaggi credibili, forti, capaci di superare i propri limiti e migliorare, e che ti fanno pensare: voglio essere come lui».
E come si crea un cartone che funziona a Seul come a Roma?
«La popolazione è concentrata in grandi città, conosce il mondo con gli occhi di chi ha visto sempre palazzi e negozi. Uno stratagemma è far muovere i personaggi fra casette all’americana e grattacieli sullo sfondo. L’immaginario globale è quello. Nelle scuole, infatti, si vedono sempre i corridoi con gli armadietti: mezzo mondo non li ha, eppure, sono familiari per tutti. Quando fai vedere a un bambino di Seul una casa di pietra, è un’ambientazione fantasy, come il mio Pinocchio, una storia universale, ma ambientata in un borgo toscano e, per il resto, portata ai giorni nostri, coi telefonini».
Cosa rende Pinocchio universale?
«L’idea di essere onesti e al servizio degli altri per poter diventare bambini in carne e ossa».
Come passò dai fumetti all’animazione?
«Ero da Bonelli, disegnavo Nick Raider e, di notte, storie mie. Le portai alla Fiera per ragazzi di Bologna, lì un editore francese di film di animazione mi chiese se volevo andare a Parigi. Non avevo mai pensato ai cartoni animati, anzi, a quel punto, il mio sogno era diventare regista di film. S’immagini mamma che vedeva i bonifici arrivare da Bonelli, quando le dico: vado a Parigi a disegnare un cartone. Disse: sei matto, lì non conosci nessuno. Avevo 24 anni. Partii con la mia Lancia Delta F Turbo. Ai cartoni, mi appassionai all’istante e iniziai subito a mettere da parte i soldi per la pazzia più grande».
Qual era la pazzia più grande?
«Che dopo un film e mezzo coi francesi, rifiutai un contratto di tre anni per tornare in Italia e fondare la Rainbow. Partii con 90 milioni di lire e un socio, un prete marchigiano: don Lamberto Pigini, un visionario che si preoccupava di dare lavoro e creare imprese».
Quei primi 90 milioni di lire che fatturato producono oggi?
«Ottantacinque milioni di euro. Il primo anno, non spesi una sola lira per me, spendevo solo per lavorare. Volevo produrre Tommy & Oscar, costava cinque miliardi di lire, io ero un ragazzo di provincia senza sponsor, guadagnare la fiducia dei broadcaster fu un’impresa. Produssi tre minuti e li portai alla Rai. Speravo in una coproduzione, in due o tre miliardi. Il funzionario mi rispose che solo gli americani puntavano su un giovane agli esordi. Mi disse: se però riesci a produrlo, possiamo darti mezzo miliardo dopo. Gli risposi: le darò soddisfazione, perché questa storia è fatta per diventare un cartone animato».
Temerario o presuntuoso?
«Fiducioso. La persona che era con me, mi disse: è la peggiore risposta che ti poteva dare e quasi lo ringraziavi, ora sta pensando “questo Straffi fallirà, ma è figo”. Poi, quel funzionario, dopo che Tommy & Oscar fecero ascolti record, si scusò ed è sempre stato in coproduzione. Una volta, ottenni un appuntamento alla Bbc, il volo costava un milione di lire, una spesa devastante. Arrivo, pieno di speranze, trovo solo la segretaria che mi dice di lasciare il progetto a lei. Sono utili gli schiaffoni».
Altri «schiaffoni»?
«Quando un distributore di Los Angeles mi offrì sei milioni di dollari. Mi chiese un’assicurazione costosissima, la pagai, firmammo, stappammo lo champagne. Sparì. Alla fine, mi disse: non ti possiamo pagare più».
Quindi, come trovò i cinque miliardi?
«Feci due volte il giro del mondo col Round the World Ticket, un biglietto aereo che, se ti spostavi sempre nella stessa direzione, in due settimane, ti consentiva di fare qualsiasi tappa: New York, Tokyo, Pechino, Ankara... Riuscii a vendere Tommy & Oscar in Corea, in Brasile, nel Sud Est Asiatico...».
Lo schiaffone più utile?
«Una società di Singapore prese i diritti per l’Asia, mise un milione di dollari, parte in cash e parte in lavoro che avrei dovuto fare lì, nei loro studi. Già non era una soluzione comoda, poi, era il ’98 e arrivò la crisi delle Tigri asiatiche: annullarono l’accordo. Mi ritrovai con questi diritti da vendere in Paesi sconosciuti, ma in quegli studi avevo incontrato Joanne Lee, manager di marketing. Si offrì di aiutarmi. Presi un ufficio di venti metri quadrati, lei riuscì a far arrivare due milioni di dollari. Sei anni dopo, sarebbe diventata mia moglie».
Le Winx come nascono?
«Le avevo pensate quando c’erano i Pokemon, Dragon Ball e niente per le bambine: immaginai un cartone con ragazze protagoniste, artefici del proprio destino».
Con la sensibilità di oggi, col politically correct, quali cartoni della sua infanzia non si potrebbero rifare?
«Neanche Pippi Calzelunghe che si appende al lampadario o si getta in fiumi impetuosi. Sarebbe ritenuta istigazione al pericolo. Eppure, noi siamo venuti su con Pippi, come mai siamo sopravvissuti? Ora, forse, taglio una scena di Pinocchio. Un pupazzo può fare cose più pericolose di un bambino, ma andare per le scale con lo skate, dieci anni fa si poteva fare, oggi, non so».
Qualcuno le ha mai chiesto di tagliare qualcosa?
«No, ma è capitato che alcune tv abbiano tagliato una Winx di spalle: è stata intesa come un Lato B. C’è tanta attenzione a ciò che può turbare sessualmente, mentre ci sono scene di violenze, non nei nostri cartoon, e nessuno dice niente. Sono contento perché vent’anni fa sono stato il primo a volere etnie diverse: in Tommy & Oscar ci sono il musicista di colore, l’amica asiatica... Oggi, però, siamo al punto che i broadcaster ti chiedono la tabellina di quanti asiatici, quanti bianchi e dei loro orientamenti sessuali».
Cioè di quanti sono etero, omo, fluidi...?
«Diciamo che Hollywood incoraggia le diversità in generale e, in particolare, non crede che i ragazzi debbano considerare solo la famiglia tradizionale».
E questo non finisce per creare forzature?
«La diversità è una forza: il creativo, se ha sensibilità, la inserisce in automatico. Solo che su certe storie ci sta, su altre il processo potrebbe essere più graduale».
La globalizzazione crea una cultura unica?
«Se vuoi vendere a una piattaforma che ti copre 150 Paesi, sì. Altrimenti, rinunci a diversi milioni e ricominci a vendere Paese per Paese».
In certi fantasy di Hollywood i maschi se la passano male e i principi azzurri, ormai, sono perfidi o inetti.
«È il momento delle eroine. Una volta, gli eroi erano tutti uomini, perciò ho fatto le Winx. Ora, però, le donne devono essere personaggi totalmente positivi e solo gli uomini bianchi possono essere cattivi, senza che nessuno si debba offendere. Io, per fortuna, ho tre figlie femmine: dalle Winx in poi, mi sono detto che il mondo è donna. La mia azienda è la prova della parità: donne e uomini sono 50 e 50 e, nei ruoli apicali solo il direttore finanziario è uomo».
Le sue figlie hanno l’età per darle consigli sui suoi cartoni?
«Le due gemelle sono piccole. Isotta ha otto anni, la nipote di nonna Pina dei 44 Gatti è ispirata a lei. In casa, girano tanti episodi pilota, osservo cosa le piace».
Con sua moglie vicepresidente dell’azienda, in casa quanto si parla di lavoro?
«Tanto. Io avrei la presunzione di fare tutto da solo, ma quando ti confronti con una donna intelligente, capita che ti rendi conto che l’idea che avevi non era così buona».