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 2021  novembre 16 Martedì calendario

Intervista a Simonetta Gola, la moglie di Gino Strada


«Credo di essere fortunata rispetto ad altri. Ho perso la persona che amavo ma ne posso continuare a parlare, anzi devo continuare a farlo perché il suo pensiero non vada perduto». Simonetta Gola, 50 anni, si è sposata con Gino Strada nel giugno del 2021, una manciata di settimane prima della sua morte. Ma da molti anni gli era vicina, prima come responsabile della comunicazione di Emergency e poi anche come sua compagna e sostegno fidato. Oggi, a distanza di tre mesi dalla sua scomparsa, arrivata come un macigno a poche ore dall’ingresso dei talebani in quella Kabul che lui così bene conosceva e amava, il ricordo del fondatore di Emergency si mescola con quello privato.
Abbiamo ancora tutti negli occhi le immagini della camera ardente, dove 11 mila persone sono venute a rendergli omaggio. Cosa significa, vivere senza lui a fianco?
«Gino ha lasciato un vuoto enorme nel privato e nel lavoro. Ma ci ha lasciato anche un grande pieno, fatto di tanti progetti. E responsabilità gigantesche per portare avanti il lavoro di Emergency».
Gino Strada aveva un enorme carisma personale. Il suo pensiero per un’intera generazione ha rappresentato un punto di riferimento, una precisa posizione politica. Come si gestisce questa eredità?
«Siamo stati abituati per anni alle sue prese di posizione, alle sue invettive. Ai suoi discorsi appassionati. E ora che non c’è dobbiamo far sì che il suo pensiero non vada perso. Con questo spirito abbiamo organizzato lo spettacolo al Teatro Dal Verme di questa sera, partendo proprio dalle sue parole e dal suo pensiero».
Il lavoro di Emergency come procede?
«Chiaramente la sua perdita è stata un colpo duro per tutti. Ma siamo andati avanti. Abbiamo finito di costruire un ospedale in Yemen. E stiamo rafforzando la presenza in Italia, perché – come Gino amava ripetere – i diritti devono essere di tutti, altrimenti sono privilegi. Sulla salute, in primis. E questo non solo in Afghanistan o nei Paesi più fragili. Ma anche qui a casa nostra».
Gino Strada è venuto a mancare in uno dei momenti più tragici per il popolo afghano cui era così vicino. L’ospedale di Emergency a Kabul anche oggi in mezzo alla tempesta resta un punto di riferimento fondamentale per i civili….
«La prima volta che ha visitato il Paese era il 1998, lo prendevano per pazzo quando diceva che voleva aprire un ospedale lì per curare la gente. È finita che ne ha costruiti quattro. L’ultimo è stato vent’anni esatti dopo. Era rimasto molto impressionato da come fosse cambiato il Paese. Di come i civili fossero ancora così esposti ad attacchi e attentati. E di come il conflitto in Afghanistan fosse a tutti gli effetti una guerra di aggressione. Per questo non gli piaceva l’espressione “siamo in Afghanistan”, riferita alla presenza militare degli italiani. Lo aveva fatto riflettere sul tema della scelta, sulla possibilità che la politica ha di cambiare il mondo, di fermare i massacri, di spezzare la catena d’odio che alimenta il fondamentalismo. Un’opportunità che molto spesso non viene colta per ragioni di mera convenienza economica».
A cosa stava lavorando prima di morire?
«Nel febbraio 2020, a inizio pandemia siamo andati a Hiroshima per raccogliere materiali per un centro culturale contro la guerra che stiamo creando a Venezia. Abbiamo incontrato il sindaco della città, che ci ha accolto con particolare gentilezza. Durante la visita nel parco, un posto meraviglioso e pieno di pace, arrivati davanti alla cupola ci siamo fermati, colpiti. E lì mi parlava di Einstein, che se l’uomo è stato in grado di creare un’arma per distruggere il Pianeta allora come è possibile che non sia in grado di fermare la guerra. È stato l’ultimo viaggio di lavoro».
Alla fine vi siete andati a rifugiare in Normandia, un luogo che amava molto. Di cosa parlava più volentieri negli ultimi mesi?
«Aveva sempre tanta voglia di fare, di vedere gli amici, dopo la chiusura dei mesi precedenti a causa della pandemia. Era una persona divertente, ironica, tagliente che amava la vita. La sera mi leggeva la storia del Terzo Reich di Shirer, perché non si capacitava non l’avessi letto. Due tomoni. Io mi addormentavo. Ma lui non si rassegnava e andava avanti. Era così Gino. Andava sempre avanti. Anche per me, per noi».