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 2021  novembre 16 Martedì calendario

Intervista ad Amitav Ghosh


Dhona, dopo aver arruolato il nipote Dhakey, parte in una missione per arraffare miele nell’arcipelago delle Sundarbans. La spedizione si addentra nella giungla proibita dove vive il temibile spirito di Dokkhin Rai, che si incarna in tigre ed è stato relegato lì da due potenze divine, la Signora della Foresta Bon Bibi e il fratello guerriero Shah Jongoli. Lo spirito tigresco offre a Dhona di riempirgli la stiva delle barche con tanta lucrosa cera di miele, ma in cambio vuole divorare Dhakey. Solo la forza di una preghiera in rima e con metrica precisa rivolta a Bon Bibi potrà salvare il povero nipote dalla bestia affamata. Ecco la “Storia della Giungla” o Jungle Nama (Neri Pozza), libro in rima di Amitav Ghosh con ipnotiche illustrazioni dell’artista pakistano- americano Salman Toor. Si tratta della ricostruzione di Ghosh della leggenda di Bon Bibi, figura sacra adorata sincreticamente sia dagli indù che dai musulmani nell’arcipelago bengalese delle Sundarbans. Ma è anche una leggenda che ricorda agli umani l’importanza del rispetto per la Natura, raffigurata sia dalla forza divina di Bon Bibi che da quella letale della tigre mangia- uomini. Il libro non è stato solo tradotto con sapienza, ma è davvero “ri-raccontato in italiano,” come si legge nel frontespizio, con il tocco giocoso ed elegante di Anna Nadotti e Norman Gobetti.
Alcuni potrebbero obiettare che questo è un libro per bambini, con illustrazioni e rime da filastrocca.
Come risponderebbe?
«La storia originale non è per niente una storia per bambini. È un testo per adulti molto serio. Ancora oggi ci sono persone che entrano nella giungla cantando queste rime, nella speranza che li protegga: affrontano pericoli mortali affidandosi alla forza di queste parole. Ma ciò apre alla domanda su cosa è considerato poco serio dalla cultura contemporanea. Una delle cose più bizzarre di questa cultura è che scrivere di tempeste e disastri naturali, per quanto devastanti, non è considerato letteratura seria.
Diventa subito fantasy o fantascienza. È una trappola in cui la modernità si è cacciata. Perché è ovvio che gli eventi climatici che ci circondano sono fatalmente seri. La gente sta morendo. Abbiamo appena visto decine di migliaia di ragazzi protestare a Glasgow contro i cambiamenti climatici. Eppure queste tematiche faticano a trovare un inserimento nei testi che la cultura contemporanea considera seri. Un paradosso incredibile».
Alla base della storia c’è il rapporto con la natura. Forse anche un monito a non violare il santuario delle tigri nelle riserve naturali?
«Uno dei messaggi di Jungle Nama è che devi andare nella giungla solo se ne hai un bisogno estremo. Nelle Sundarbans ci sono spesso attacchi di tigri. Quando accade, la prima cosa che ci si chiede è: ma la persona attaccata aveva bisogno di entrare nella foresta? Aveva cibo a casa? Se la risposta è sì, allora si pensa che se l’è andata a cercare.
Parliamo delle persone più povere al mondo, che non hanno nulla. Ma vanno nella foresta solo se sono alla disperata ricerca di cibo. E, se ci vanno, stanno molto attenti a non lasciare indietro nulla. Non sputano nemmeno a terra per non lasciare tracce di sé, una sorta di ecologia e ambientalismo popolari. L’idea, molto importante oggi, è di creare un equilibrio tra il bisogno degli umani e dei non umani».
Questo testo vive in simbiosi con le illustrazioni. È possibile che, vista l’ossessione per le immagini imposta da internet, oggi diventi quasi obbligatorio, come dice lei, “illuminare” il testo con le figure?
Come nel Medioevo, oggi la tecnologia è al centro della società, e forse per questo, come nell’era medievale, s’impongono di nuovo le immagini, prima la tv e ora i social…
«Sì, il mezzo della stampa è ostile alle immagini. I grandi movimenti iconoclasti iniziati in Europa nel Sedicesimo secolo si sono sviluppati grazie alla tipografia, la cui evoluzione ha imposto un totale logocentrismo. La gente ha cominciato a pensare che se c’erano le illustrazioni il libro non poteva essere molto serio. Che era per bambini. Per menti semplici o sciocche. È una forma d’iconoclastia protestante che dura fino alla metà del Ventesimo secolo.
Ora internet unisce immagini e testo in modi sempre più interessanti. I giovani non sono logocentrici come noi. Non hanno proprio le capacità di leggere come potevamo fare noi, perché hanno abilità diverse».
Può spiegarci perché ha scelto di scrivere in “versi a due piedi”, i “dwipodi poyar” di 24 sillabe in righe da 12 sillabe rimate? La storia stessa asserisce che c’è un potere magico nella metrica, come un mantra.
«I poeti e la poesia hanno reagito molto di più alle problematiche dell’ambiente e della crisi climatica degli autori in prosa. Per registrare ciò che sta accadendo nel mondo dobbiamo lasciar andare il prosaico. Nelle mie ricerche ho studiato antichi testi in bengalese i cui autori erano sensibili alla natura, ai disastri naturali e all’ambiente. In quei lunghi poemi epici si usava il metro del “dwipodi poyar”, una metrica che trasporta la storia stessa, ne è la sua forza. Rima e metrica sono due parole davvero fuori moda nella poesia d’élite dall’inizio del Ventesimo secolo fino a oggi, perché vissuti come legami che ti trattengono dall’esprimerti liberamente. Ma è l’esatto opposto.
Rima e metrica sono due elementi essenziali del linguaggio che si prestano all’analisi della realtà. È evidente che la costrizione è ciò di cui abbiamo bisogno, nella nostra era. Dobbiamo tenere sotto controllo i nostri desideri illimitati e l’idea che libertà” significhi “libertà di consumare”. La rima ti costringe nell’uso del linguaggio. E il messaggio stesso di questo testo è quello del bisogno che abbiamo noi umani di creare un equilibrio nel mondo che ci circonda. Creando dei vincoli».