la Repubblica, 16 novembre 2021
Quirinale, la lezione di De Gasperi
Via via che passano i giorni, un timore si diffonde nei palazzi romani: che la matassa del Quirinale si trasformi in un groviglio inestricabile, per cui alla fine i due soli personaggi da tutelare, Mattarella e Draghi, entrambi indispensabili alle istituzioni, siano travolti dal grande frullatore. Quel meccanismo che si mette in moto quando manca un baricentro, o se si vuole un regista riconosciuto in grado di gestire operazioni complesse. In giro ci sono molti tattici ma forse nessun stratega, quando invece la partita intorno alla presidenza della Repubblica è materia per gli strateghi più che per i tattici.
È stato sempre così, ma forse mai in passato il sistema politico era apparso così sfilacciato. Circostanza che dovrebbe consigliare di proteggere la stabilità come il bene più prezioso. E oggi, piaccia o no, la stabilità del sistema s’incarna nell’attuale capo dello Stato e nell’attuale presidente del Consiglio.
Mescolare le carte si può, secondo molti si deve, ma a condizione che esista un regista, appunto, capace di tenere fermo il bandolo della matassa. Senza di lui, si rischia un ingorgo disastroso, dalle conseguenze imprevedibili.
Quando Enrico Letta propone una sorta di patto alle forze di maggioranza in grado di reggere fino a gennaio, nel tentativo di individuare insieme la soluzione più idonea per il Quirinale, compie un passo nella giusta direzione. E tuttavia lo scetticismo è inevitabile, perché al segretario del Pd manca la forza politica che ebbe De Mita nel 1985, quando impose al primo scrutinio Cossiga; oppure D’Alema e con lui Veltroni quando nel 1999 furono gli artefici dell’elezione di Ciampi, sempre al primo voto.
Ci sono poi alcune esperienze del passato che tornano alla mente oggi che si parla di “semi presidenzialismo di fatto”.
Nel 1948, reduce dalla vittoria elettorale del 18 aprile, Alcide De Gasperi avrebbe avuto poche difficoltà a farsi eleggere presidente della Repubblica. Ma non ne ebbe la tentazione. Era consapevole che l’opera immane di ricostruire l’Italia poteva essere svolta solo da Palazzo Chigi, così come era convinto che nell’equilibrio costituzionale italiano il potere esecutivo è del presidente del Consiglio e il garante dell’unità nazionale siede al Quirinale. Agì quindi per essere il “grande elettore” del primo presidente.
Non ebbe successo con Carlo Sforza, pensò a Benedetto Croce e infine la sua scelta felice cadde sul nome prestigioso di Luigi Einaudi.
Da notare che Croce, due anni prima, avrebbe potuto essere capo provvisorio dello Stato, se solo avesse accettato di candidarsi. Pietro Nenni gli aveva già promesso il voto dei socialisti, chiedendogli in cambio un segno di disponibilità. Ma il filosofo declinò con una nobile lettera: chissà, la storia d’Italia avrebbe potuto essere diversa, anticipando il centrosinistra.
In ogni caso l’episodio dimostra che non è sempre vero che al Quirinale non ci si candida, ma si viene candidati. Talvolta l’incertezza sulle intenzioni di una persona, specie se si tratta di una figura centrale nelle istituzioni, genera equivoci e i ncoraggia, senza volerlo, le manovre tattiche: le meno adatte a individuare soluzioni appropriate. In fondo quasi ogni presidente nella storia repubblicana ha incarnato un cambio di scenario. E oggi? Se la posta in gioco è la stabilità come premessa della ripresa economica e sociale, il buon senso suggerisce di alterare il meno possibile l’assetto raggiunto.