la Repubblica, 16 novembre 2021
Un dialogo tra David Grossman ed Elena Bucci
L’antefatto è questo: nel 2011, David Grossman pubblica in Israele Caduto fuori dal tempo, un libro con cui tenta – con il coraggio di un grande scrittore convinto che il racconto possa nonostante tutto salvare il mondo e il desiderio – dare forma letteraria al lutto per la perdita del figlio Uri, ucciso nella guerra del Libano nell’estate del 2006. Il testo, una specie di viaggio nell’universo altro, normalmente nascosto agli occhi dei vivi, di magnifica potenza, esce un anno dopo in una altrettanto magnifica traduzione italiana di Alessandra Shomroni (Mondadori). E ora viene messo in scena nella drammaturgia di Elena Bucci (al Teatro Parenti di Milano dal 17 novembre), con Mario Sgrosso e il musicista Simone Zanchini alla fisarmonica. I tre si muovono su un palcoscenico quasi vuoto di oggetti. È la prima volta che in Italia un testo dello scrittore israeliano diventa una pièce teatrale. Quanto segue è il dialogo fra l’autore e la drammaturga.
Cominciamo dall’inizio. Dalla domanda a Elena Bucci. Perché ha voluto trasformare “Caduto fuori dal tempo” in uno spettacolo teatrale?
Bucci:«Ho sempre amato la scrittura diGrossman. Mac’è un aspetto cruciale chemi ha interessato in Caduto fuori dal tempo : l’indagine sulla soglia di quel passaggio delicatissimo che è il passaggio fra la vitalamorte. Questa operaper meè unesempio di come sipossa distillare il dolore e trasformarlo in scrittura, comprensioneememoria».
In altre parole: ha parlato di catarsi. E fin dai tempi di Euripide, il teatro è luogo di catarsi. Ma intanto, una domanda a Grossman. In Israele molti dei suoi romanzi sono stati rappresentati sul palcoscenico e adattati al cinema. Che impressione le fa, vedere le sue parole tradotte in immagini? In genere, nei suoi testi lei parte dall’immagine e la traduce in parole. Qui invece accade il contrario.
Grossman:«Bucci ha fattoun giusto usodel mio testo.Mentre scrivevo
Caduto fuori dal tempo pensavoaun gioco di voci. Ero convinto che le parolenon dovessero restare solo sullacarta, ma dovessero avere una loro voce.Ora, la voce è lo strumento principale di questo spettacolo, perché rende reali le cose altrimenti difficilida esprimere. E quando ho visto la registrazione della prova mi sonocommosso peril modoin cuigli attori recitano. Sentire le parole che hoscritto assiemealla musica aggiunge un’altra dimensione al testo. La voce cambia le parole. E poi, in generescrivo in prosa.Ma sono stato sempre attratto dalla poesia. Mia moglie, Michal, mi ha detto chela poesia è l’arte più vicina al silenzio. Ed Elena è riuscita a tenere la delicatissima tensionefra immagini, parole,movimento, voci. Houn pensieroe unsentimentoche non so articolare bene. Ecco, questa messa in scenami dice qualcosa sul processo di tornare alla vita».
Ha detto: poesia è silenzio. Nello spettacolo ci sono solo due protagonisti, più il musicista con la fisarmonica. E un palcoscenico quasi sempre spoglio di oggetti.
Occorreva coraggio per eliminare gli altri personaggi del libro.
Bucci:«Ci sonocose che nonhanno unaragione logica,ma solo una ragione istintiva e non puoi fare diversamente.Leggendoe rileggendo iltesto ho cominciato a vedere un’anima maschilee una femminile.
Avevobisogno di starein scena con persone vicine, intime. Così si è creata unamagia, con Sgrosso, Zanchini e LoredanaOddoneche hacreatole luci. Però è vero, avevo paura di questa riduzione. Il testo era intoccabile. Ma dovevotrasformarlo seguendo la cordache risuonavadentro di me. Ho fattoscelte dolorose, come accorpare alcunescene. Ma sentivounagrande fiducia nell’autore. Sapevo che avrebbecompresoe cheera generoso».
Grossman:«Ho scritto il libro quattro annidopo la catastrofe cheha subito la mia famiglia. Nello spazio temporaledel lutto, quattro annisono un battito di ciglia. E forse per questo avevobisogno di molti personaggi.
Forsenel lutto avevo bisognodi una molteplicità di sentimenti, di passioni della vita in tutte le sue espressioni: i suoni, la fantasia, le voci. Forse tu, Elena, cercavi altre cose, dato che vienida unluogo diversoe daun tempodiverso. Ehai trovato emesso in risalto l’essenza dell’essenza del mio lavoro.Mi piacequello chehai fatto, perché mi hai insegnato qualcosa. Il mio criterio per giudicare un’opera d’arte è se suscita in me il desiderio di creare qualcosa di nuovo, se dopo averla vista sonocarico, impaziente. Il tuo lavoro ha suscitato in me questi sentimenti».
Bucci: «Ora ho capito il miracolo di potersiincontrare provenendoda Paesi diversi».
Forse il miracolo dell’empatia che qui sta accadendo è dovuto al fatto che il libro, oltre al lutto e il lamento per la perdita senza possibilità di consolazione, esprime desiderio, amore e oserei dire eros.
Grossman:«Volevo trovare il luogo, dove perfino nell’abisso della perdita, la vita dà segni di esistenza. I credenti trovano conforto nella fede che ci sia vitadopola morte.Ma io nonsono credente.E ho capitoche peruna personalaica comeme, illuogo più significativo dove la vita, con tutta la sua ricchezza, coesiste con la perdita e l’orrore del nulla, è l’arte. L’unico luogodove la vita e il nulla agiscono e nutrono l’uno l’altro è letteratura, poesia, musica, teatro».
Sia nel libro sia nello spettacolo è centrale la figura del Centauro. Cosa è?
Grossman: «Nel mio libro è una persona che ha perso il figlio. Ed essendo uno scrittore, sente che non può continuare la vita senza che scriva la storia della sua perdita. Al contempo però non osa scriverla. Perché come puoi servirti delle parole quando hai difficoltà di capire la dimensione trascendentale della morte con le stesse piccole, meschine, addomesticate parole? Così, il mio Centauro si è unito, fisicamente, alla scrivania: mezzo scrittore mezza scrivania. C’è però un momento quando all’improvviso sente un bambino sussurrare. C’è un respiro nel dolore. (Grossman vuole ripetere due volte la frase in ebraico “Yesh neshimah betokh hakeev”, dove la parola neshimah significa anche neshamah, anima, ndr ). E in quel momento riesce a separarsi dalla scrivania per tornare unessereumano».
Bucci: «C’è respiro nel dolore è la chiave di volta di tutto il testo».
Parliamo della messa in scena. Lei, Bucci, è stata allieva di Leo De Berardinis, l’uomo che sosteneva la centralità della voce e del corpo dell’attore a scapito della regia, della scenografia. La riduzione appunto.
Bucci: «Ho avuto il privilegio di aver frequentatoun maestroche miha insegnato a non rassegnarsi all’oblio e dimantenerelamemoria.Una memoriachenonèmelanconiama unacosa viva. E poi, Leo ha restituito all’attore la capacità di rilettura, di sceltae di creazione. Anche di ricreare il testo. Infine, sono fiera che gli strumentidi scenain questo spettacolo nonsi notano, perché la cosa più difficile è togliere il superfluo».
Prima, Grossman, lei ha dato la definizione della trascendenza laica, dicendo che per noi non credenti la trascendenza è l’arte nelle sue varie espressioni. Il teatro, trae però le sue origini dai riti sacri. E allora, cosa è per lei il teatro?
Grossman:«Un luogoche ci mettein contatto con riti religiosi arcaici, ma lo fa in unmodo laico. Eche racconta la storiadelgenere umano nel più profondo senso laico. Perché la laicità non significa solo non essere religioso maè unaautentica edolorosa consapevolezzadi comenoi non credenti siamosoli in questomondo, come è difficile l’esercizio di empatia e comesiamo intrappolati nelle nostre angosce. Però,più invecchioe piùmi piace il cinema. Trovo il teatro oggi nonabbastanza follee mordente. E troppopochevolte nerimango scosso. Il tuo teatro, Elena, è diverso.
Sonorimastoscossoecommossoda quel soffio di vento buono, della boccata di aria fresca»