La Stampa, 16 novembre 2021
La vocazione di Elena Ferrante
(anticipazione del libro I margini del dettaglio)
La mia vocazione realistica, perseguita con cocciutaggine fin dall’adolescenza, a un certo punto si è mutata in una constatazione di incapacità. Non sapevo ottenere un’esatta riproduzione della realtà, non ero capace di dire la cosa com’era. Ho provato il racconto fantastico credendo che fosse più facile, ho mollato, ho tentato svolte neoavanguardistiche. Ma il bisogno di ancorarmi a storie realmente accadute a me o ad altri era indiscutibilmente forte. Costruivo personaggi modellandoli su persone che avevo conosciuto o che conoscevo. Annotavo gesti, modi di parlare, come li vedevo e li sentivo. Descrivevo paesaggi, il trascorrere della luce. Riproducevo dinamiche sociali, ambienti distanti economicamente e culturalmente. Malgrado il fastidio, lasciavo che il dialetto avesse il suo spazio. Accumulavo insomma pagine e pagine di appunti ricavati dalla mia esperienza diretta. Ma collezionavo solo frustrazioni.
A questo punto, in modo occasionale come succede quasi sempre con tutto e quindi anche con i libri che ci sono veramente d’aiuto, mi capitò di leggere da cima a fondo Jacques il fatalista e il suo padrone. Del Jacques non dirò niente di ciò che conta, dovrei cominciare col Tristram Shandy di Laurence Sterne, che lo precede e lo influenza, e non la finirei più; ma, se non li avete letti, fidatevi, sono due libri che dicono quant’è difficile raccontare e intanto vi moltiplicano la voglia di farlo. Mi limiterò invece, qui, a sottolineare che quella lettura mi permise, dopo molti anni, di restituire al suo contesto la frase citata dalla mia professoressa.
«Di’ la cosa com’è» ordinava il padrone a Jacques il fatalista. E lui rispondeva: «Non è facile. Non si ha forse il proprio carattere, il proprio interesse, il proprio gusto, le proprie passioni, secondo cui si esagera o si attenua? Di’ la cosa com’è! [...} In tutta la città non succede, in un giorno, nemmeno due volte. E chi ascolta ha una disposizione maggiore di chi parla? No. Dal che bisogna dedurre che, in una grande città, solo due volte al giorno, forse, si è capiti per quel che si dice». Il padrone allora replicava: «Che diavolo, Jacques, ecco delle massime tali da proscrivere l’uso della lingua e delle orecchie al punto da non dir nulla, da non ascoltar nulla e da non credere nulla! Tuttavia, di’ come puoi, io t’ascolterò come posso e ti crederò come potrò».
Avevo letto un mucchio di libri su quei temi, pagine spesso inutilmente difficili, e lì, detto con semplicità, trovai un po’ di consolazione. Se ogni corpulento o smilzo romanzo che scrivevo si rivelava alla fine lontanissimo dalle mie aspirazioni – avevo ambizioni smisurate –, forse la ragione non era solo la mia incapacità. Raccontare il reale – sottolineava Jacques – è costituzionalmente difficile, bisogna fare i conti col fatto che chi racconta è sempre uno specchio deformante. Quindi? Meglio rinunciarci? No, rispondeva il padrone, non bisogna buttarsi giù: è arduo raccontare con verità, ma tu fa’ il possibile.
Cominciò un lungo periodo in cui cercai di fare il possibile. Mi imposi di essere meno esigente del solito e perciò, a un certo punto, un libro che avevo scritto e che mi era sembrato non troppo brutto mi fece venir voglia – non era mai capitato prima – di mandarlo a un editore. Pensai di accompagnarlo con una lettera dettagliatissima in cui spiegavo da dove m’era venuta la vicenda, di quali persone e fatti reali essa si era nutrita. Quella lettera provai sul serio a scriverla, andai avanti per molte pagine. In principio pareva tutto chiaro. Tiravo in ballo le circostanze in cui, accostando eventi reali, la storia s’era andata articolando. Poi passavo a descrivere le persone vere, i luoghi veri che piano piano, escludendo e aggiungendo, erano diventati i personaggi e gli sfondi della vicenda. Quindi passavo alla tradizione in cui mi ero inscritta, ai romanzi che mi avevano ispirata ora per la costruzione dei personaggi, ora per la orchestrazione di singole scene, ora persino per il disegno di un gesto. Infine ragionavo su come tutto si era storpiato, ma difendendo le storpiature in quanto inevitabili, ragionandoci su, presentandole come una mediazione necessaria.
Ma più mi immergevo nella materia, più la verità della lettera di accompagnamento si complicava. C’ero io, io, io. C’era la mia spinta a esagerare difetti, ad attenuare meriti, e viceversa. Soprattutto intravidi, credo per la prima volta, l’area nebbiosa di ciò che avrei potuto scrivere, in quel libro, ma mi faceva male scrivere e quindi non l’avevo fatto. Piano piano mi ingarbugliai e smisi.
Non voglio dire che è stato a quel punto che la mia vena scribacchina ha trovato un suo sbocco. Sono passati anni da allora, ho fatto altre letture importanti, ho scritto parecchie altre cose insoddisfacenti. Ma vorrei qui azzardare che, se ho fatto un certo numero di piccole scoperte – forse un po’ ingenue, ma per me fondamentali –, lo devo a un imperativo estetico meno severo (di’ la cosa nei limiti del possibile), e a quell’abbozzo di lettera autoriflessiva.
Ne elenco qualcuna.
Prima piccola scoperta. Avevo sempre scritto in terza persona, fino a quel momento. La prima persona di quella lettera, proprio perché più avanzava più si ingarbugliava, e più si ingarbugliava più mi coinvolgeva, mi sembrò una novità promettente.
Seconda piccola scoperta. Presi atto che la realtà, nel fare letterario, tendeva inevitabilmente a ridursi a un ricco repertorio di trucchi che, se abilmente usati, davano l’impressione che i fatti fossero venuti sulla pagina proprio com’erano accaduti, con i loro connotati sociologici, politici, psicologici, etici eccetera. Tutt’altro, insomma, che la cosa com’è. Si trattava di un gioco illusionistico che per riuscire doveva fingere che nessuno avesse raccontato, nessuno avesse scritto, e il reale fosse lì, così ben riprodotto da far dimenticare persino i segni dell’alfabeto.
Terza piccola scoperta. Ogni narrazione era sempre inevitabilmente opera di un narratore o di una narratrice, che per loro natura, per loro conformazione, non potevano essere che un frammento tra frammenti di realtà, sia che si acquattassero, sia che si presentassero obliquamente, sia che si fingessero io narrante, sia che apparissero in quanto autore o autrice dell’intero congegno letterario, con la loro firma in copertina.
Quarta piccola scoperta. Quasi senza accorgermene, da aspirante a un realismo assoluto ero diventata una realista sfiduciata che ora si diceva: posso raccontare il «là fuori» solo se racconto anche me che sono «là fuori» insieme a tutto il resto.
Quinta piccola scoperta. Il fare letterario non sarebbe mai riuscito a costringere sul serio il vortice di detriti, che costituiva il reale, dentro un qualsiasi ordine grammaticale e sintattico. —