La Stampa, 16 novembre 2021
Intervista a Ciriaco De Mita
Certo, un libro così – utilissimo, di questi tempi – potrebbero scriverlo anche Walter Veltroni, gran regista dell’elezione di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale, o Matteo Renzi, sceneggiatore della inattesa salita al Colle di Sergio Mattarella. Ma De Mita ha una priorità, perché detiene un record che resiste da 36 anni, quattro presidenti e un numero abnorme di tempestose e inutili votazioni: Francesco Cossiga, il suo candidato-Presidente, raccolse il più alto numero di voti mai espressi dalle Camere in seduta congiunta. Settecentocinquantadue. Più di Ciampi (707), più della seconda elezione di Giorgio Napolitano (738). E perfino più di quanti ne ottenne – su uno sfondo drammatico – Oscar Luigi Scalfaro (672) eletto presidente cinque giorni dopo la strage di Capaci (23 maggio 1992).
Oggi Ciriaco De Mita è alla vigilia dei 94 anni, dal 2014 fa il sindaco a Nusco – suo paesino natale – e purtroppo non ha ricette da offrire di fronte al «groviglio istituzionale» che ad inizio 2022 metterà in gioco (e tutti insieme) l’elezione del nuovo capo dello Stato, il destino del governo e quello della legislatura. Per la sua ricetta, spiega, mancano addirittura gli ingredienti-base: partiti degni del nome che portano e senso di responsabilità. «Se ragionassero sulle grandi difficoltà che abbiamo di fronte – dice – una soluzione, alla fine, la troverebbero. Ma non ragionano di questo, e il rischio è impantanarsi votazione dietro votazione».
Forse è per questo che qualcuno pensava – e magari pensa ancora – che la soluzione migliore sarebbe lasciare tutto com’è, rieleggendo Mattarella?
«L’idea di scaricare sul Quirinale le tensioni che agitano il sistema dei partiti, non è corretta. È un pericoloso espediente, oltre che un evidente scarico di responsabilità. Per altro, al momento – ripeto, al momento – mi pare anche un’idea votata al completo fallimento».
Crede anche lei, dunque, che Sergio Mattarella non accetterà un reincarico?
«La mia impressione, a conclusione del dialogo avuto in questi anni con lui, è che il Presidente della Repubblica si sia posto – e ora stia ponendo agli altri – un problema che non ha nulla di personale. Ritiene – e lo ritengo anch’io – che la questione riguardi ormai la salvezza dell’organo costituzionale Presidenza della Repubblica così come lo abbiamo conosciuto e lo conosciamo: il punto più alto di ogni garanzia democratica non può esser continuamente strattonato dai partiti o trasformarsi in camera di compensazione delle loro tensioni».
Quindi fa bene il Capo dello Stato a non lasciarsi incantare dalle tante sirene?
«Io non discuto il fatto che tenere al loro posto sia Mattarella che Mario Draghi potrebbe essere una soluzione al problema, ma bisogna ragionare di quel che è possibile: e la politica non si fa con i desideri. In più, osservo con preoccupazione e dispiacere il paradosso che è alle porte: in un panorama di generale mediocrità politica, la personalità di maggior spessore – il Presidente della Repubblica – se ne va. La situazione mi inquieta».
Potrebbe però rassicurarla l’ipotesi che al Quirinale venga eletto Draghi, no?
«Che si pensi al presidente del Consiglio come futuro capo dello Stato, ci sta: ma toccherebbe ragionare anche su cosa ne sarebbe del governo. Mario Draghi ha dimostrato doti straordinarie come amministratore del governo e del Paese. Ed è anche riuscito, fino ad ora, a tenere in equilibrio una maggioranza di forze totalmente eterogenee: c’è qualcun altro che potrebbe esser capace di tanto? La mia opinione – e provo a dirlo con la massima chiarezza – è che tenere Draghi a Palazzo Chigi non è un’opportunità ma una necessità per il Paese».
Quindi, ricapitolando: Mattarella finisce il mandato e saluta, Draghi resta al suo posto e il Parlamento elegge un nuovo Presidente. Detta così, sembra di un’ovvia semplicità: ma lei ci crede?
«È la via maestra. Poi, certo, c’è il problema dello stato dei partiti e della pletora di leader solitari – soli, direi – che calcano la scena».
Non le piacciono?
«Forse non piacciono più nemmeno agli elettori. Guardi la Lega, che declino. Chi sono questi giovani leader in campo? Chi rappresentano? E controllano davvero i partiti e i parlamentari che guidano? Esiste ancora un centrodestra o esistono solo dei capi con dietro un popolo disorientato? E il centrosinistra? Cosa sta diventando?».
Insomma, non sono più i suoi tempi...
«Ai miei tempi, la Dc poteva eleggersi il presidente quasi da solo. Nel 1985 in particolare, con Craxi a Palazzo Chigi e Pertini presidente uscente. Io ero il segretario della Democrazia Cristiana, e invece chiesi agli altri partiti una rosa di nomi tra i quali scegliere insieme il nuovo Capo dello Stato. Chiesi anche al PCI... Solo il Pli non indicò Cossiga, ma risolvemmo rapidamente. Il risultato? 752 voti alla prima votazione».
Erano altri tempi, ripeto.
«Certo. Ma era soprattutto un’altra politica. Che aveva senso di responsabilità, ed anche coraggio: perché ci sono momenti in cui la politica esige personalità politiche. Non sempre è tempo di tecnici o di intellettuali. E soprattutto, non sempre si può chiedere a loro di tirar via le castagne dal fuoco».