Giuseppe Sarcina e Milena Gabanelli per il "Corriere della Sera", 15 novembre 2021
LA DOPPIA MORALE DI WASHINGTON SULL’EVASIONE FISCALE - BIDEN DICHIARA GUERRA AI PARADISI OFFSHORE, EPPURE IN CASA NE HA SETTE: L'ACCORDO “FATCA” IMPONE A 113 PAESI DI DIRE TUTTO SUI CONTI ESTERI DEI CITTADINI AMERICANI, PECCATO CHE WASHINGTON NON RICAMBI LA CORTESIA - GABANELLI: “IN QUESTO RIGORE A SENSO UNICO, GLI STATI UNITI NON COMUNICANO QUALE SIA LA CONSISTENZA DELLE RICCHEZZE DI UN CONTRIBUENTE ITALIANO IN UNA BANCA AMERICANA. LASCIANDO QUINDI LIBERA LA PRATERIA DEL RICICLAGGIO…” -
Rigore a senso unico su tasse ed evasori: il governo degli Stati Uniti è sempre più severo con i propri contribuenti, ma poi protegge gli stranieri che imboscano denaro sul territorio americano.
Joe Biden e la Segretaria al Tesoro, Janet Yellen hanno lanciato un’aggressiva campagna politica, economica e anche culturale contro evasione tributaria, paradisi fiscali, riciclaggio e corruzione. Tutto bene, se ci non fossero alcune vistose contraddizioni che inquinano i rapporti tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, in particolare con noi europei.
Nel Dataroom del 26 aprile scorso abbiamo visto le strategie aziendali per eludere le imposte, e come i big del digitale siano in grado di quasi azzerare il carico tributario spostando gli utili da un territorio all’altro. Con la global minimun tax si fa un piccolo passo avanti verso l’equità. E su questo dobbiamo ringraziare Biden. Come invece garantire che anche i singoli cittadini paghino il dovuto all’erario, senza nascondere soldi su conti bancari o fiduciarie oltre confine?
Scambio di informazioni fiscali: come funziona Già sette anni fa, esattamente il 15 luglio del 2014, il Consiglio dell’Ocse (Organizzazione cooperazione e sviluppo economico) ha adottato il «Common Reporting Standard (Crs)», un protocollo che prevede lo scambio sistematico di informazioni fiscali a livello internazionale.
Da una parte le banche, i fondi di investimento, le fiduciarie, i trust e altre finanziarie sono tenute a comunicare tempestivamente alle autorità del proprio Paese come hanno operato i cittadini stranieri (solo persone fisiche, non società di capitali) sui quattro «canali» da cui transitano le ricchezze Eccoli: conti di deposito (cioè conti corrente, conti commerciali, libretti di risparmio); conti di custodia detenuti da fiduciarie o trust; azioni e altre forme di capitale a rischio; contratti di assicurazione.
Dall’altra i Ministeri delle Finanze inviano un rapporto ai partner del Crs. In questo modo, per esempio, la nostra Agenzia delle Entrate comunicherà a Berlino cosa possiedono i cittadini tedeschi nel nostro Paese e viceversa la Germania farà la stessa cosa con noi. E così tutti gli altri, in una fitta rete di relazioni multilaterali.
Gli Usa non aderiscono I primi scambi di informazioni sono iniziati nel 2017, ed abbiamo scoperto che ne per esempio nel nostro Paese 2 milioni di cittadini italiani hanno 3 milioni di conti esteri (soprattutto in paesi a fiscalità agevolata) su cui sono depositati 210 miliardi di euro. All’intesa dell’Ocse aderiscono 112 Stati: i 27 Paesi dell’Unione europea, Gran Bretagna, Cina, Russia, India, ma anche Svizzera, Isole Vergini Britanniche, Isole Cayman, Barbados, Bahamas eccetera.
C’è solo un grande assente: gli Stati Uniti. La scelta di Washington ha sorpreso anche gli alleati più stretti, visto che l’Ocse si era attivata su impulso del G20, di cui gli americani sono protagonisti. Per altro il nuovo corso voluto da Biden, la «lotta senza sconti alle astuzie fiscali», avrebbe come logico sbocco la piena sottoscrizione del «Crs», ma non sarà così neanche nel prossimo futuro.
È una storia che comincia undici anni fa e che illustra bene quale sia l’idea di «collaborazione internazionale» coltivata dai governi americani, democratici o repubblicani che siano, quando c’è di mezzo la condivisione di database considerati sensibili.
L’accordo americano a senso unico Barack Obama, appena arrivato alla Casa Bianca, promosse una campagna anti-evasione con lo scopo di fermare la fuga all’estero di capitali e di risparmi. Obama avviò un’intensa opera di pressioni politiche e diplomatiche che portò, nel 2010, all’introduzione del «Fatca» (The Foreign Account tax compliance Act).
Nel giro di pochi anni gli Usa hanno convinto 113 Paesi ad aderire. Nell’elenco ci sono i tradizionali alleati europei, i Paesi asiatici e le tante zone franche della fiscalità mondiale. Gli Stati concordano sulla necessità di scambiarsi i dati sui conti correnti, i depositi, gli investimenti oltre confine dei propri cittadini. Sembra la stessa formula dell’Ocse, ma se si leggono con attenzione le carte, si vede come i due accordi siano radicalmente diversi. Mettiamola così.
Il governo Usa vuole sapere tutto sui contribuenti americani, stanandoli ovunque, scardinando, almeno sulla carta, le roccaforti storiche del segreto bancario, come la Svizzera appunto.
Ma quando si tratta di percorrere la strada a ritroso, le cose cambiano parecchio. Gli americani hanno concepito il «Fatca» non fissando standard validi per tutti, ma affastellando protocolli bilaterali, Stato con Stato. Per capire come funzionano bisogna aprirli e leggerli uno per uno.
I dati che gli Usa danno all’Italia Proviamo a fare un esempio con quello siglato dall’Italia il 17 agosto del 2015. L’articolo 2 prescrive le informazioni che la nostra Agenzia delle Entrate (delegata dal Mef) si impegna a comunicare ogni anno all’«Irs», Internal Revenue Service, l’Agenzia delle entrate Usa.
Nel dettaglio: il numero di conto aperto da un cittadino americano in una banca o in un’altra istituzione finanziaria; il totale dei depositi, degli interessi maturati, dei redditi provenienti da cessione di una parte o di tutto il patrimonio; se è un deposito fiduciario, va comunicato l’ammontare degli interessi maturati, dei dividendi incassati e altri redditi generati dal patrimonio in custodia.
Vediamo, invece, quali sono gli obblighi assunti dagli Usa in quella stessa intesa del 2015. Riferire all’Agenzia delle Entrate i dati anagrafici dei contribuenti italiani, il numero di conto aperto presso una banca americana, gli interessi maturati in un anno, il totale dei dividendi e di altri redditi provenienti da attività negli Stati Uniti. Ma il totale depositato su quel conto no.
Chi controlla i flussi In sostanza le nostre autorità consegnano una radiografia completa dei redditi e delle operazioni compiute in Italia da un americano; Washington ricambia con notifiche laterali, senza neanche comunicare quale sia la consistenza delle ricchezze detenute da un contribuente italiano in una banca americana. Lasciando quindi libera la prateria del riciclaggio.
Con un tocco di ironia involontaria, nello testo del «Fatca» con l’Italia si legge (articolo 6): «Il governo degli Stati Uniti riconosce la necessità di raggiungere livelli equivalenti di scambio di informazioni reciproco e automatico». Bene, sarebbe arrivato il momento di farlo.
I 7 paradisi americani Così come sarebbe maturo un intervento sui paradisi fiscali interni. Quelli al centro del dibattito politico e legislativo sono sette: Delaware, Wyoming, New Mexico, Nevada, Alaska, Montana, South Dakota.
Tutti Stati che offrono tassazioni agevolate, soprattutto alle imprese, o legislazioni che consentono di occultare informazioni essenziali sui proprietari o i beneficiari di una società. Nelle ultime settimane l’inchiesta dei «Pandora Papers», condotta dall’«International Consortium Investigative Journalism» (150 media nel mondo), ha seguito le tracce di 206 posizioni finanziarie opache, aperte negli Usa da stranieri provenienti da 41 Paesi diversi.
Tra loro figurano il presidente della Repubblica Domenicana Luis Abinader, il re di Giordania Abdullah II, il presidente del Congo Nguesso, imprenditori, star dello spettacolo, calciatori. Uno dei crocevia più attivi è il South Dakota, lo Stato che ha incentivato la formazione dei cosiddetti «trust».
La legislazione locale consente a queste società di schermare l’identità del beneficiario. Negli ultimi dieci anni le ricchezze custodite nelle fiduciarie di Sioux Falls, la capitale del South Dakota, si sono quadruplicate, toccando la cifra di 360 miliardi di dollari.
Cosa offre il Delaware Ma il rifugio fiscale più frequentato resta il Delaware, lo Stato che il presidente Biden ha rappresentato al Senato per 36 anni. Circa 1,6 milioni di imprese (qualche centinaio sono italiane) hanno installato qui la loro sede legale, comprese circa 300 aziende inserite nella classifica di Fortune 500.
Il Delaware offre sostanzialmente tre vantaggi: la costituzione agevolata dei «trust»; una modesta tassa dell’8,7% sugli utili delle imprese, e quelli ricavati da alcune attività (brevetti, marchi e altri «investimenti intangibili») anche se la produzione è collocata altrove.
Infine nel Delaware opera un tribunale per le controversie commerciali, la «Court of Chancery», tradizionalmente molto sensibile alle ragioni degli imprenditori. Queste zone franche sono motivo di imbarazzo politico per il governo Biden.
Non è facile, spianare le legislazioni locali. Le resistenze sono bipartisan: quattro Stati sono governati dai repubblicani; tre dai democratici. Per il momento l’unico strumento in campo è il «Transparency Act», legge approvata il primo gennaio del 2021.
Il provvedimento impone, tra l’altro, a tutte le società costituite in America di riferire alle autorità i nomi degli azionisti. Ma non si menzionano i «trust», cioè il veicolo più usato per occultare l’identità dei beneficiari. Le norme entreranno in vigore a gennaio 2022. I contribuenti che pagano fino all’ultimo centesimo aspettano da Biden un cambio di passo.