Corriere della Sera, 15 novembre 2021
Vita di Matilde di Canossa
Il 14 maggio 1872, il cancelliere Otto von Bismarck fece entrare la «grancontessa» Matilde (1046-1115) nel Kulturkampf, la battaglia dell’impero tedesco contro la Chiesa di Pio IX. «Noi non andremo a Canossa, né con il corpo né con lo spirito», annunciò con solennità al Parlamento. Si riferiva, Bismarck, all’atto di sottomissione compiuto al cospetto della nobildonna, dall’imperatore Enrico IV nei confronti di papa Gregorio VII. Compiuto otto secoli prima. Nel gennaio del 1077, Enrico IV, colpito da un interdetto papale, aveva accettato la mediazione dell’abate Ugo di Cluny per riuscire ad esser ricevuto e «perdonato» dal pontefice. Prima dell’incontro aveva trascorso tre giorni al gelo nel piazzale innevato del castello di Canossa. Scalzo, vestito con un misero abito da penitente, l’imperatore si era poi inginocchiato ai piedi di Gregorio VII per ottenere la revoca della scomunica. Quell’umiliazione fece diventare Matilde, coprotagonista – assieme al papa e all’imperatore – del clamoroso evento. Divenne la donna più celebre del Medioevo, la più importante, forse, assieme a Giovanna d’Arco, vissuta tre secoli dopo di lei.
Anche se, come sottolinea Paolo Golinelli in Matilde di Canossa. Vita e mito, in uscita il 18 novembre per i tipi della Salerno, la «grancontessa», a differenza della «pulzella d’Orléans», non diventò mai un’eroina nazionale. Il mito di Giovanna poté infatti avvalersi di due doti non attribuibili a Matilde: la giovinezza e il martirio. In più, Giovanna giocò, nella sua pur breve esistenza, un ruolo fondamentale nella costruzione dello Stato che le aveva dato i natali, «divenendo così un mito fondativo della Francia moderna». Matilde invece, prosegue Golinelli, visse 69 anni ed ebbe «un ruolo divisivo» sia nella sua esistenza (fu al centro del contrasto tra papa e imperatore), sia «nelle interpretazioni che della sua figura furono costruite nei secoli successivi, specialmente durante la lotta tra cattolici e protestanti e tra italiani e tedeschi». Ma la sua immagine restò ugualmente nei secoli. Colpì Dante Alighieri, che la collocò nel ventottesimo canto del Purgatorio, alle porte del Paradiso. E Michelangelo, che nel 1513 la scolpì alla destra di Mosè per il sepolcro di Giulio II.
Va precisato però che la presenza di Matilde di Canossa nella Divina Commedia è controversa. Marco Santagata in Le donne di Dante (il Mulino) definì la Matelda dell’Alighieri «il personaggio più enigmatico e inafferrabile della Commedia». Secoli di esegesi, a giudizio di Santagata, non sono riusciti a stabilire se fosse la Matilde di cui parla Golinelli, o un «personaggio simbolico», una «rappresentazione allegorica».
Ma torniamo a Canossa. Protagonista principale di quella storia fu Enrico IV, l’imperatore, che, nel castello di Matilde, si «umiliò» di fronte a Gregorio VII. «Leggo e rileggo le storie dei re e degli imperatori romani, ma tra di loro non trovo nessun altro, prima di Enrico IV, che sia stato scomunicato o deposto dal romano pontefice», scrisse, ottant’anni dopo i fatti, Ottone vescovo di Frisinga (1109-1158), grande cronista medievale. Ottone di Frisinga era nipote di Enrico IV, suo nonno; il vescovo scriveva sotto l’effetto dello shock che quegli accadimenti avevano provocato non solo alla sua famiglia bensì al mondo in cui aveva vissuto. Un mondo che considerava l’episodio del pentimento dell’imperatore, inginocchiato al cospetto di un pontefice, alla stregua di uno spartiacque. Per Ottone quell’avvenimento aveva rappresentato la fine dell’Impero, spodestato, per così dire, dalla Chiesa di Roma. Le cose non stavano così. O comunque non del tutto. Ma questa fu la percezione dell’epoca e su Matilde si riverberò la luce di quel supposto cataclisma.
Golinelli ricostruisce come ciò che accadde nel gennaio 1077 «rappresentò il momento culminante dell’azione politica di Matilde di Canossa». Nel senso che «la vide portare al massimo la missione della sua famiglia di mediatrice tra il papa (di cui condivideva nel profondo l’ideale di Riforma della Chiesa) e l’imperatore del quale era seconda cugina e a cui doveva la maggior parte dei suoi poteri di marchesa di Toscana, contessa di Reggio Emilia, Modena, Mantova, Ferrara (nonché del dominio in molte terre circostanti del bolognese, del veronese, del cremonese e del parmense)». Per ciò che concerne il potere, la sua famiglia, quella degli Attonidi, era già assai grande da un secolo, tant’è che da tempo la sua era considerata una tra le principali dinastie del Regno Italico. Quanto all’umiliazione di Canossa in sé, però, quell’atto non ebbe nessuna ripercussione sugli avvenimenti successivi.
Dopo quindici giorni, mette in risalto l’autore del libro, Enrico IV riprese la lotta contro Gregorio VII, ritenuto papa illegittimo, e fu l’imperatore a «vincere» a Canossa. In che senso? Dopo la riammissione dell’imperatore scomunicato nella «comunione dei santi», Enrico poté riprendere i suoi poteri. Mentre, per parte sua, Gregorio «dovette scusarsi di avergli concesso l’assoluzione». Il papa era stato messo in un cul de sac e, da sacerdote, non aveva potuto far altro che assolvere il peccatore pentito. Nessuno «sconvolgimento del mondo», dunque (il riferimento è al titolo di una «splendida mostra» – così Golinelli – allestita a Paderborn nel 2006). Era stata poco più di una «messa in scena».
Una quindicina di anni fa, Johannes Fried, storico dell’Università di Francoforte sul Meno, ha provocato un terremoto sostenendo addirittura che l’imperatore e il papa avevano concluso un accordo già molti mesi prima del citato inginocchiamento. La rivelazione si basava sull’interpretazione di un passo tratto dal Liber gestorum recentium di Arnolfo di Milano secondo il quale l’accordo tra le due autorità sarebbe stato «confermato» nel castello di Canossa. Confermato, non stipulato.
Nessun atto di sottomissione da parte di Enrico IV, dunque. Secondo questa ricostruzione, i principi tedeschi, tenuti all’oscuro del fatto che Gregorio VII aveva da tempo raggiunto un’intesa con Enrico IV, sarebbero stati «ingannati». Tanto dal pontefice, quanto dal sovrano. Ai grandi di Germania – riassume Stefan Weinfurter in Canossa. Il disincanto del mondo (il Mulino) – «sarebbe stata propinata la versione secondo cui Gregorio VII aveva avuto paura di Enrico IV e si era rifugiato nel castello di Canossa al fine di tutelare la propria sicurezza». Poi però «sarebbero stati i vescovi dell’Italia settentrionale, i quali si opponevano a qualsiasi compromesso con il papa, ad impedire che i nuovi equilibri di pace si concretizzassero». Colpa di Bismarck se l’episodio era stato poi messo in cattiva luce. La ricostruzione di Fried fu accolta dalla maggior parte degli storici tedeschi – tra i quali lo Weinfurter – come una fantasticheria. In un articolo su «Historische Zeitschrift» Wilfried Hartmann la bollò come «del tutto assurda».
Lo stesso Golinelli – il quale pure sostiene che quello di Enrico IV a Canossa «non fu nulla di più di un atto penitenziale» e che non può essere considerato come l’esito di un processo «dal momento che l’imperatore era già stato condannato» – prende seccamente le distanze dalle tesi di Fried. Anche se concede a Fried che «prima della penitenza dovettero intercorrere trattative in base alle quali Enrico era sicuro dell’ottenimento del risultato».
Poi, però, Golinelli osserva che sarebbe assurdo considerare il tutto alla stregua di una messinscena. Non si fanno «trattati di pace dopo tre giorni di penitenza nel freddo». Di più: Weinfurter ha fatto notare che un importante successore di Enrico IV, Federico I Barbarossa (1122-1190), dovrà affrontare qualcosa di simile a quel che era capitato al suo avo. Barbarossa, che fu l’ultimo imperatore a «suscitare antipapi» e a reputarsi con convinzione «protettore della Chiesa universale», dovette anche lui compiere un atto di sottomissione. Fu costretto a «inchinarsi» di fronte all’autorità spirituale del papa e nel 1177, a Venezia, dovette piegarsi ad Alessandro III, il pontefice che aveva combattuto per anni e anni.
Barbarossa era sceso ben quattro volte in Italia e a luglio del 1167 aveva conquistato la Città Leonina. Poi però era stato costretto a ritirarsi perché il suo esercito era stato colpito da una pestilenza e in quel contesto aveva deciso di riconciliarsi con papa Alessandro. Il quale dopo una lunga trattativa accettò di revocargli la scomunica. E fu la pace di Venezia. Cento anni dopo Canossa, però, il «rituale di penitenza riservato all’imperatore ribelle», fa notare Weinfurter, «durò tre settimane invece di tre giorni».
Golinelli affronta anche quelle che definisce le «croste» di Matilde, da lui considerate vere e proprie falsificazioni. Ad esempio: non è vero che Matilde sia stata – com’è stato scritto – una sorta di «viceregina d’Italia». Il fraintendimento aveva avuto origine da un verso del monaco Donizone (1071-1130) il quale racconta come nel maggio del 1111 Enrico V, di ritorno da Roma dove aveva costretto papa Pasquale II a incoronarlo, si fermò al castello di Bianello e assegnò a Matilde «il governo del regno ligure nelle veci del re». L’autore si affida qui agli studi di Carlo Guido Mor che cinquant’anni fa dimostrò l’impossibilità che, nel Regno Italico, potesse essere esistito, a quell’epoca, un vicereame «con conseguente carica di viceré o viceregina». C’è da osservare poi che quando Donizone parla di Liguri, si riferisce ai popoli che all’epoca abitavano la parte centrale del Nord Italia. Infine in vice regis, spiega lo studioso, sta ad indicare il potere che l’imperatore concedeva al vassallo di agire «in sua vece». Niente di più. Quella di cui parla Donizone fu molto probabilmente una «reinfeudazione» di Matilde dopo che trent’anni prima, con il bando di Lucca, Enrico IV le aveva tolto i poteri feudali precedentemente delegati alla sua famiglia.
Altra «crosta», secondo Golinelli, sarebbe la «donazione delle sue terre alla Chiesa». Probabilmente, ammette lo storico, ci fu «l’intenzione di Matilde di donare alla Chiesa i suoi beni». E forse fu redatto un documento in tal senso. Ma questo accadde nel corso del periodo più caldo della guerra contro Enrico IV, se non addirittura durante l’incontro di Canossa. Magari «quando ella fece fondere le suppellettili d’argento e d’oro dei monasteri a lei vicini» per dare un aiuto a Gregorio VII in difficoltà (1082). Ciò che valse al papa – racconta Glauco Maria Cantarella nella biografia Gregorio VII (Salerno) – «l’accusa infamante di esserne l’amante segreto». O, semplicemente, «rinverdì» quella diceria.
Era, secondo Cantarella, «una di quelle cose utilissime per la propaganda e facilissime da propalare con la predicazione». Tant’è che i difensori del pontefice si sentirono in dovere di combattere quelle accuse, non senza lasciar trasparire qualche imbarazzo, mettendo in risalto l’età avanzatissima di Gregorio e l’impossibilità di avere quel genere di rapporti «anche volendo» per via della «freddezza del sangue» e della «debolezza del corpo». Golinelli si ritrae inorridito dalla semplice ipotesi di un «amore terreno» tra la «grancontessa» e il suo papa. Attribuisce invece le fortune di Matilde (troviamo studiosi che si occupano di lei non solo negli Stati Uniti, ma in Australia, in Giappone») a quella che potremmo definire la sua «attualità». Fu «donna attuale», Matilde di Canossa, nel «saper fidelizzare i suoi sottomessi responsabilizzandoli in un ideale comune» (come oggi dovrebbe saper fare ogni manager). Nel dare «importanza al lavoro, alle donne, agli umili» come è rappresentato sulla facciata del duomo di Modena. Nel «liberare servi e ancelle dal giogo della schiavitù». Nel considerare «il valore della cultura, dall’arte alla poesia alla musica, al diritto». Nell’amare i libri, nel favorire gli intellettuali. E, non ultimo, «nel rifiutarsi di continuare legami matrimoniali insoddisfacenti». Respingendo l’invito del papa a riconciliarsi con il marito, Goffredo il Gobbo. E sopportando in conseguenza di ciò insinuazioni e maldicenze. Di più: una vera e propria persecuzione maschilista. La più importante persecuzione maschilista del Medioevo.