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 2021  novembre 15 Lunedì calendario

Intervista a Claudia Pandolfi

Claudia Pandolfi vive in una piccola grande contraddizione tra sfera pubblica e privata: l’attrice che rivendica il diritto alla normalità, sta sperimentando un vero ritorno alla popolarità (e continua a essere vista con il sopracciglio alzato dal cinema d’autore). È su Rai Uno, con Alessandro Gassmann, nella serie Un professore; sta girando per Amazon The Bad guy; al cinema è uscito Per tutta la vita di Paolo Costella.
Da un set all’altro. Eppure di sé dice: io non mi sento attrice, faccio l’attrice.
«È un atteggiamento distaccato che ribadisco tutti i giorni. L’attrice la lascio in camerino. Dopo la scena di un film, allo stop, divento me stessa. Cerco di non mentirmi, di non avere sovrastrutture. Essere autentici migliora i rapporti».
Sono trent’anni che fa questo mestiere...
«Mi hanno conosciuta in tutte le salse. Di recente mi hanno detto: lo sai che sei simpatica. È una cosa buffa. Forse dipende dal fatto che prima il mio disagio fuori dal set usciva da tutti i pori, ora capita meno. O meglio: in modo più spensierato e meno ingrugnito».
Ma lei non è affatto antipatica.
«Cosa posso dire... grazie, spesso invece risulta così. Sui set non mi isolo, è che non mi piace raccontarmi. Vorrei esistere soltanto nei personaggi che interpreto».
Allora diventare famosa è stata una scocciatura?
«Fu uno choc, stare al centro dell’attenzione non mi appartiene, quando lavoro sono protetta. Finito un set mi sento subito in un altro set, è una cosa alienante ma accade nella realtà».
«Ogni volta che faccio un film penso sia l’ultimo». L’ha detto lei.
«E lo penso, sento la caducità, ogni volta vieni scelta. Poi mi giro e sono passati trent’anni. Per una che voleva fare la ginnastica artistica... Non vivo la competizione, non mi sento in gara con nessuno».
Non era stanca di fare la poliziotta?
«Certo, infatti dopo Distretto di polizia ho girato I liceali. E per fortuna che c’è un regista come Paolo Virzì che se ne frega se ho fatto tanta tv. L’attore è uno: dove lo metti, sta».
Ma, a parte Virzì, l’altro cinema, quello dei Festival, non la chiama.
«Non c’è un solo regista intellettuale che non mi abbia chiamato a un provino, anche quello che passa per essere il più altero di tutti, tanto avete capito di chi parlo. Lo fanno per curiosità. Non importa, io mi diverto, anche se a volte mi chiedo perché non prendono me. Non mi volete? Tié, mi diverto lo stesso. Io sono felice così. Ma poi cosa vuol dire il cinema dei Festival... Il vero mondo è fuori, quello è un universo così astratto».
Virzì l’ha chiamata per la terza volta.
«Quando mi chiama sono entusiasta. Coglie chiavi intime senza voyeurismo. Il mio primo film con lui è Ovosodo, mia sorella Enrica, che ha dieci anni meno di me, faceva la mia sorellina, poi non ha voluto proseguire come attrice, non si divertiva, fa la segretaria di edizione al cinema. Questo nuovo film con Paolo si intitola Siccità, in una Roma dove non piove da tre anni, io sono un medico di Pronto soccorso, una donna dura, imperscrutabile».
Lui è un ritrattista della femminilità...
«E anche del mondo, che osserva con una sfumatura grottesca. Io sono cinica quindi andiamo d’accordo».
Cinica?
«Cito sempre Woody Allen: “La vita è una commedia scritta da un sadico”. Arriva sempre l’inatteso, nel bene e nel male. La vita è così spiazzante... Ho fatto un altro film con Virzì, ma è di suo fratello Carlo, dove faccio la bassista punk. Nella vita strimpello la chitarra. Nel soggiorno di casa ho tutto, il pianoforte, la batteria».
Come ha cominciato?
«Michele Placido mi aveva vista a Miss Italia, era l’edizione vinta da Martina Colombari. Lì, mentendo e non mi chieda perché l’ho fatto, ancora adesso non saprei cosa rispondere, dissi che avrei voluto diventare attrice. Mica vero, mi vedevo come insegnante di ginnastica. E avrei fallito perché sono troppo alta, i muscoli, le articolazioni...».
Ma Michele Placido
«Ci sto arrivando. Mi ritrovai a girare con Placido il mio primo film, a 18 anni, Le amiche del cuore. Mi diedero otto milioni. Con i soldi mi iscrissi anche a una scuola privata, feci quattro anni in uno e mi diplomai in ragioneria».
Quattro anni in uno?
«Eh, nell’insegnamento privato puoi».
Immaginiamo lo studio matto e disperatissimo alla Leopardi.
«Embé».
E dopo due anni, nel 1994, si ritrova accanto a un pezzo da novanta come Alain Delon.
«L’orso di peluche Lo videro in quattro. Lui aveva 65 anni, io 20. Un uomo rispettabile. Mi trattava come una figlia».
Ma il fascino di Delon?
«È nell’immaginario di mia madre».
Ha mai fatto psicoanalisi?
«Sì, tra i venti e i trent’anni, prima del mio primo figlio, Gabriele, che è del 2006. Avevo bisogno di interfacciarmi con qualcuno che non fosse di famiglia, di mettere ordine... Ero piena di brufoli, avevo dolori di stomaco. Il mio corpo parlava».
Dov’è cresciuta?
«Quartiere Montesacro, una zona popolare di Roma, tra i due negozi dei rispettivi nonni, una macelleria e un fruttivendolo. I miei si sono conosciuti così, uno di fronte all’altro. Mi nascondevo nei magazzini, tra quintali di scatole accatastate. Sognavo di stare alla cassa. Ero un maschiaccio, un pagliaccio. Sporca, sbucciata. Che bella l’adolescenza».
Facciamo un salto nel tempo. La lettera che nel 1999 scrisse al Corriere per spiegare il suo matrimonio lampo con Massimiliano Virgili, lasciato per Andrea Pezzi, nozze corte come la vita di un gatto in tangenziale...
«È stato uno sbaglio, ho capito dopo che nella vita non bisogna giustificarsi. Era un periodo turbolento. Non volevo parlare di nulla e tutti volevano parlare di me. Sono passati tanti anni, sono diversa da allora: ma chi non lo è?».
E ora si è sposata con Marco De Angelis per strada, a Barcellona, un «rito» per voi due.
«Il nostro vicino di panorama, su un ponte, aveva la tunica di sacerdote e un turbante. Si capiva che era di un’altra religione. Ci vedeva innamorati, ci ha messo una mano sulla testa e ha detto qualcosa, in una lingua che mi sembrava indiana o araba, è imbarazzante ma non l’ho decifrata. Il tutto è durato tre minuti. Di matrimonio vero non parliamo mai».
Quando torna a casa, parlerete anche voi di pro vax e no vax...
«Le regole e il bene comune vanno rispettati. Ho visto la vignetta di un figlio che chiede al padre: perché io non ho i segni del vaccino contro il vaiolo? E lui: perché ha funzionato. Ci sono persone fragili che non possono vaccinarsi, e fin qui sono d’accordo. Ma è per loro che dobbiamo farci quell’iniezione. Ci sono i dati. Non c’è tanto da parlare: va fatto e basta».
Ma i suoi altri film e le serie tv di che cosa parlano?
«In Un professore faccio finalmente una romana, io che sono di Roma e non me l’hanno praticamente mai chiesto; interpreto una donna indipendente, libera, tenace, mio figlio è allievo del prof Alessandro Gassmann, con cui avevo avuto un piccolo trascorso, ci rincontriamo e nasce una tenerezza. The Bad Guy è con due registi giovanissimi di Matera, competenti, divertenti e ironici. Si chiamano Giuseppe Stasi e Giancarlo Fontana. Il protagonista è Luigi Lo Cascio, un magistrato che combatte la mafia e si trova coinvolto in ciò che combatte, io sono sua moglie, avvocatessa di successo. In Per tutta la vita c’è la domanda: se il matrimonio fosse nullo cosa faresti?».
È vero che oggi avrebbe problemi a spogliarsi sul set?
«Non mi suona proprio come frase mia, certo lo si fa con più dimestichezza in età giovane, ma se fosse giustificato dal film non avrei problemi a mostrarmi nuda in una pellicola davanti ai miei figli. Non è la nudità, è il contesto che conta».
Ha mai interpretato una femme fatale?
«Non lo saprei fare, scoprirebbero la magagna, non sono per niente una seduttrice».