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 2021  novembre 15 Lunedì calendario

Fisco: quello che gli Usa nascondono all’Italia


L’accordo «fatca» impone a 113 Stati di dire tutto sui conti esteri dei cittadini americani, ma washington non ricambia Biden dichiara guerra ai paradisi fiscali e in casa ne ha sette

Tutto bene, se il rigore non fosse a senso unico. Il governo degli Stati Uniti è sempre più severo con i propri contribuenti, li va a stanare giustamente ovunque, anche nella blindata Svizzera, ma poi protegge gli stranieri che imboscano denaro sul territorio americano.
Scambio dati fra autorità fiscali
Prendiamo la questione che riguarda i singoli cittadini che nascondono soldi su conti bancari o fiduciarie oltre confine. Nel 2014, il Consiglio dell’Ocse ha adottato il Common Reporting Standard (Crs), un protocollo che prevede lo scambio sistematico di informazioni fiscali a livello internazionale. Le banche, i fondi di investimento, le fiduciarie, i trust e altre finanziarie sono tenute a comunicare alle autorità del proprio Paese come hanno operato i cittadini stranieri: conti di deposito, conti di custodia detenuti da fiduciarie o trust; azioni e altre forme di capitale a rischio; contratti di assicurazione. A loro volta i ministeri delle Finanze inviano ogni anno un rapporto ai partner del Common Reporting Standard. In questo modo, per esempio, la nostra Agenzia delle Entrate (delegata dal ministero dell’Economia e delle Finanze) comunicherà a Berlino come si sono mossi i cittadini tedeschi nel nostro Paese e viceversa la Germania farà la stessa cosa con noi. E così tutti gli altri, in una fitta rete di relazioni multilaterali. I primi scambi di informazioni sono iniziati quattro anni fa, nel 2017. Per quel che riguarda l’Italia il quadro emerso dall’ultimo rapporto è questo: 2 milioni di connazionali hanno depositato su conti esteri 210 miliardi di euro. All’intesa dell’Ocse aderiscono 112 Stati: i 27 Paesi dell’Unione europea, Gran Bretagna, Cina, Russia, India, Svizzera, Isole Vergini Britanniche, Cayman, Barbados, Bahamas eccetera. C’è soltanto un grande assente: gli Stati Uniti.
Vincoli a senso unico
La scelta di Washington ha sorpreso anche gli alleati più stretti, visto che l’Ocse si era attivata su impulso del G20, di cui gli americani sono protagonisti. Tutto è iniziato undici anni fa, e illustra bene l’idea di «collaborazione internazionale» coltivata dai governi americani, democratici o repubblicani che siano, quando c’è di mezzo la condivisione di database considerati sensibili. Barack Obama, appena arrivato alla Casa Bianca, promosse una campagna anti-evasione per fermare la fuga all’estero di capitali e di risparmi, che nel 2014 portò all’introduzione del «Fatca», «The Foreign Account tax compliance Act». Nel giro di pochi anni gli Usa hanno convinto 113 Paesi ad aderire. Nell’elenco ci sono i tradizionali alleati europei, i Paesi asiatici e, soprattutto, le tante zone franche della fiscalità mondiale.
I nostri obblighi
Gli Stati concordano sulla necessità di scambiarsi una massa di dati sui conti correnti, i depositi, gli investimenti oltre confine dei propri cittadini. Sembra la stessa formula dell’Ocse, ma se si leggono con attenzione le carte, si vede come i due accordi siano radicalmente diversi. Il Crs è come una rete formata da tanti Stati, con uguale peso, uguali doveri e uguali diritti. Con il «Fatca» invece non sono stati fissati standard validi per tutti, ma un affastellamento di protocolli bilaterali, Stato con Stato. Per capire come funzionano bisogna aprirli e leggerli uno per uno. Proviamo a fare un esempio con quello siglato dall’Italia il 17 agosto del 2015. L’articolo 2 prescrive le informazioni che il ministero dell’Economia si impegna a comunicare ogni anno all’«Irs», l’Agenzia delle entrate Usa. Nel dettaglio: il numero di conto aperto da un cittadino americano in una banca o in un’altra istituzione finanziaria, il totale dei depositi, degli interessi maturati, dei redditi provenienti da cessione di una parte o di tutto il patrimonio; se è un deposito fiduciario, va comunicato l’ammontare degli interessi maturati, dei dividendi incassati e altri redditi generati dal patrimonio in custodia.
Gli impegni degli Stati Uniti
Vediamo, invece, quali sono gli obblighi assunti dagli Usa in quella stessa intesa: riferire all’Agenzia delle Entrate i dati anagrafici dei contribuenti italiani, il numero di conto aperto presso una banca americana, gli interessi maturati in un anno, il totale dei dividendi e di altri redditi provenienti da attività negli Stati Uniti. Ma il totale delle ricchezze depositate su quei conti no. In sostanza le nostre autorità consegnano una radiografia completa dei redditi e delle operazioni compiute in Italia da un americano; Washington ricambia con notifiche laterali. Una linea a senso unico che consente di mantenere un vantaggio competitivo alle banche e al sistema finanziario Usa, e soprattutto il controllo dei flussi delle informazioni, facendo valere il peso della loro leadership mondiale. Con un tocco di ironia involontaria, nello testo del «Fatca» con l’Italia si legge: «Il governo degli Stati Uniti d’America riconosce la necessità di raggiungere livelli equivalenti di scambio di informazioni reciproco e automatico». Bene, sarebbe arrivato il momento di farlo. Così come sarebbe maturo un intervento sui paradisi fiscali interni.
I paradisi a stelle e strisce
Quelli al centro del dibattito politico e legislativo sono sette: Delaware, Wyoming, New Mexico, Nevada, Alaska, Montana, South Dakota. Tutti Stati che offrono tassazioni agevolate, soprattutto alle imprese, o legislazioni che consentono di occultare informazioni essenziali sui proprietari o i beneficiari di una società. Nelle ultime settimane l’inchiesta dei «Pandora Papers», condotta dall’ «International Consortium Investigative Journalism» (150 media nel mondo), ha seguito le tracce di 206 posizioni finanziarie opache, aperte negli Usa da stranieri provenienti da 41 Paesi diversi. Tra loro figurano il presidente della Repubblica Domenicana Luis Abinader, il re di Giordania Abdullah II, il presidente del Congo Nguesso, imprenditori, star dello spettacolo, calciatori. Uno dei crocevia più attivi è il South Dakota, lo Stato che ha incentivato la formazione dei «trust» e consente di schermare l’identità del beneficiario. Negli ultimi dieci anni le ricchezze custodite nelle fiduciarie di Sioux Falls, la capitale, si sono quadruplicate, toccando la cifra di 360 miliardi di dollari.
Che cosa offre il Delaware
Ma il rifugio fiscale più frequentato resta il Delaware, lo Stato che il presidente Biden ha rappresentato al Senato per 36 anni. Circa 1,6 milioni di imprese hanno installato qui la loro sede legale (qualche centinaio sono italiane), comprese circa 300 aziende inserite nella classifica di Fortune 500. Il Delaware offre sostanzialmente tre vantaggi: la costituzione agevolata dei «trust»; una modesta tassa dell’8,7% sugli utili delle imprese e quelli ricavati da alcune attività (brevetti, marchi e altri «investimenti intangibili») anche se la produzione è collocata altrove. Infine nel Delaware opera un tribunale per le controversie commerciali, la «Court of Chancery», tradizionalmente molto sensibile alle ragioni degli imprenditori. Queste zone franche sono motivo di imbarazzo politico per il governo Biden, perché le resistenze sono bipartisan: quattro Stati sono governati dai repubblicani, e tre dai democratici. Per il momento l’unico strumento in campo è il «Transparency Act», legge approvata il primo gennaio del 2021 dal Congresso. Il provvedimento impone, tra l’altro, a tutte le società costituite in America di riferire alle autorità i nomi degli azionisti. Ma non si menzionano i «trust», cioè il veicolo più usato per occultare l’identità dei beneficiari. Le norme entreranno in vigore a gennaio 2022. I contribuenti che pagano fino all’ultimo centesimo aspettano da Biden un cambio di passo.