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 2021  novembre 15 Lunedì calendario

Lunga intervista a Sandro Favero

Alexandre Gustave Eiffel, il padre della celebre torre metallica ormai icona di Parigi, è l’eccezione che conferma la regola. Un raro caso di ingegnere che è riuscito a porre la firma sulla propria creatura. La regola è che sia l’architetto il volto di un progetto edilizio. Associamo la Nuvola del Centro Congressi di Roma e il nuovo polo fieristico di Milano a Massimiliano Fuksas, il Centro Pompidou di Parigi a Renzo Piano, la Torre di Prada a Rem Koolhaas. E via discorrendo.
La conversazione con Sandro Favero parte proprio da qui. Favero, veneziano, 40 anni fa fondava F&M, società leader nell’ingegneria civile, delle infrastrutture e del project management. Sotto la cupola F&M troviamo F&M Divisione Impianti, F&M Infrastrutture, F&M Retail, F&M France, F&M East Europe e F&M Middle East. 
Centocinquanta professionisti operano fra le tre sedi italiane di Venezia, Milano e Roma e le cinque all’estero (Colonia, Parigi, Tirana, Dubai e Muscat). Nel portfolio brillano l’hub portuale di Ravenna, il nuovo Langham Hotel e il Museo del Novecento di Venezia, le Corti di Baires e la nuova Bicocca di Milano, le Samaritaine di Parigi, il Grand Mall e l’Hilton di Muscat. Ben 16 Padiglioni di Expo 2015 e il Padiglione Italia di Expo Dubai. La lista continua.
L’ingegnere c’è ma non si vede, brilla d’una luce riflessa dall’architetto. Voi ingegneri come vivete questa condizione?
«Gli architetti sono più bravi di noi nella comunicazione. La forma è la loro, ma è la squadra di ingegneri a tradurla in realtà. Oggi il tema chiave è la sostenibilità la quale, cosa spesso dimenticata, si deve perlopiù a un lavoro tecnologico e di impianti, quindi di nostra competenza».
Diciamolo in numeri: da uno a dieci quanto dipende da voi il tasso di sostenibilità?
«Sette. Gli architetti applicano i frutti dell’evoluzione dell’impiantistica e della tecnologia, ma alla base c’è il lavoro della squadra di ingegneri».
Lei parla di «squadra». Per dire che siete meno individualisti degli architetti.
«Per noi essere una squadra è una necessità. Per realizzare un edificio sono necessarie diverse figure d’ingegnere: delle strutture, degli impianti, dei materiali».
L’edificio che non consuma esiste o è uno slogan?
«Non esiste. O meglio. Accanto all’edificio che non consuma deve esserci per forza una centralina per produrre energia». 
Le imprese d’ingegneria italiana sono molto quotate internazionalmente, il 60% dei ricavi – pari a 1,7 miliardi – si fanno oltre confine (così l’Oice, che rappresenta le società italiane del settore).
«Era così anche in passato, gli italiani si sono sempre distinti fra i migliori costruttori in ambito civile. Prendiamo la diga di Assuan, per realizzarla dovettero traslocare un complesso funerario monumentale, operazione complicatissima, ma resa possibile grazie a imprese e tecniche italiane. Le maggiori dighe in Africa e nel mondo le hanno realizzate industrie italiane. La nostra scuola di ingegneria brilla da sempre tra le migliori».
Ingegneri, dunque, vanto d’Italia. Però il nostro Paese ha periferie infelici, infrastrutture inadeguate, è paralizzato da lungaggini burocratiche. Perché in Italia è così difficile costruire?
«Perché è complicato ottenere i permessi, i tempi di risposta sono lenti. Spesso abbiamo a che fare con la sovrintendenza, la quale ha modalità e ritmi ottocenteschi. In generale, si chiedono sempre troppi dettagli e informazioni: quanti metri cubi, numeri, una serie di dati francamente inutili. È importante che l’edificio rispetti le leggi, vero, ma deve anche essere funzionale, deve servire alla città. Un edificio brutto fa più danni di un edificio che ha un parametro di superficie maggiore di quanto prevede la legge».
In tema di bruttezza, parlano tante nostre periferie.
«Purtroppo inondate da edifici inguardabili, fatti da geometri o da architetti-geometri. Quando uno costruisce un edificio lascia una traccia per sempre. La responsabilità dei progettisti è enorme».
Congiuntamente alle responsabilità delle amministrazioni. Corretto?
«Certo. Per questo bisognerebbe rendere più elastici i parametri».
Questi parametri come sono oltre confine?
«Al massimo si regolamenta l’altezza. All’estero tutto è più veloce. Le commissioni sono più immediate, i tempi si concordano con l’amministrazione. Da noi basta che un cittadino si lamenti e intervengono le varie istituzioni, così tutto si blocca. Se noi pensiamo di investire i soldi del Pnrr applicando i criteri di prammatica, non ne usciremo mai. Mi rincuora, però, vedere che il Governo ha compreso la necessità di nominare commissari sull’esempio del successo del Ponte Morandi. Questa è l’unica strada. Ci sono opere che vanno oltre la municipalità e le regioni, sono di interesse nazionale, non possiamo limitarci alle competenze locali».
Voi quanto siete operativi in Italia?
«Per un buon 50% lavoriamo nella Penisola. E a dire il vero dalla fase Covid abbiamo registrato un aumento di progetti e iniziative nelle costruzioni. Anche se stiamo allargando sempre più il settore delle grandi opere come ponti, viadotti, strade, un ambito che vorrei diventasse prevalente rispetto a quello degli edifici».
Perché?
«Le società attive nel comparto costruzioni di edifici sono tante oltre che piccole. E il piccolo non va, non funziona più. Per crescere dobbiamo puntare su altri settori come infrastrutture e impianti. Voglio continuare a costruire società controllate dalla F&M, intendo crescere, coinvolgere professionisti di grande valore e che diventino partner di nostre società. I migliori vanno coinvolti anche in termini di quote societarie».
Sta dicendo che con il Pnrr si apre un momento d’oro per le società di ingegneria?
«C’è un problema però: per vincere gli appalti dovremo unirci a società straniere perché le società di ingegneria italiane sono mediamente piccole. Ed essendo piccole non hanno maturato certi crediti che valgono almeno il 40%».
Crediti?
«Se partecipi al bando di costruzione di un ponte ti viene chiesto quanti ponti hai realizzato. E se sei piccolo e ne hai fatti pochi, parti già svantaggiato. In tema di Pnrr i casi sono due: o ci associamo con studi stranieri oppure perdiamo. E quindi abbiamo intenzione di cercare di associarci».
Anche voi siete piccoli?
«Certo, abbiamo diverse società e 150 dipendenti, ma i grandi studi internazionali arrivano anche a 5mila. Poi sulla qualità del lavoro possiamo discutere, non sono invece opinabili i numeri, e in tal senso noi italiani siamo in grande difetto. Per questo il mio impegno prioritario è condurre operazioni di aggregazione».
Quello del piccolo e brutto è un problema italiano, comune a tutti i settori.
«Nel campo dell’ingegneria e dell’architettura si aggiunge poi un altro problema. Le nostre società sono quasi sempre costruite attorno a una figura, e quando muore il fondatore, muore anche lo studio. Bisognerebbe invece creare il futuro dello studio coinvolgendo i migliori professionisti, rendendoli protagonisti. Il passaggio generazionale va preparato».
In F&M spuntano altre due Favero.
«Sono le mie figlie Martina, architetto, e Francesca, ingegnere. Per il 50% la società è partecipata dalla mia famiglia, il resto da sei soci».
Fra gli ultimi progetti realizzati o in via di compimento di quali va particolarmente orgoglioso?
«Dei lavori per l’area portuale industriale di Genova Sestri Ponente, un intervento che rientra nel programma straordinario di investimenti urgenti per la ripresa e lo sviluppo del porto. Tra l’altro, mi risulta che sia uno dei progetti di maggior rilievo in Italia oltre che gestito dallo stesso commissario che ha rimesso in piedi il Ponte Morandi».
Il sindaco, oltre che commissario, di Genova Marco Bucci, ormai un personaggio. Come si lavora con lui?
«Pretende l’impossibile, mette tutti sotto pressione, ma ottiene i risultati. In un parola, è bravissimo».
La sua società come è nata?
«Siamo nati come studio associato nel 1978, e ho mantenuto il logo F&M sebbene l’ex-cofondatore, Milan, 10 anni fa è uscito creando una sua realtà».
Partenza con tecnigrafo?
«Proprio così. Però mi hanno sempre incuriosito le novità tecnologiche. In 40 anni di attività ho vissuto una vera e propria rivoluzione della mia professione, posso tranquillamente dire che in questi decenni il mio è diventato un altro mestiere».
La sua è una famiglia di ingegneri?
«Vengo da famiglia di piccoli costruttori. Il nonno si occupava delle costruzioni in paglia che un tempo erano tipiche delle terre venete. Papà faceva opere in calcestruzzo, era arrivato ad avere una trentina di operai, d’estate lo aiutavo anch’io. A vent’anni mi trovai al crocevia: continuare con l’impresina di papà o con gli studi?»
Scelse ingegneria.
«Per la verità optai per architettura a Venezia. Dopo sei esami, mi iscrissi a Ingegneria a Padova, correvano gli anni della contestazione ma in questa facoltà si studiava e punto».
F&M va in giro per il mondo, ma la sede rimane in terra veneziana, a Mirano. In cosa si sente fortemente veneto?
«In aggiunta all’accento che sicuramente non mente, direi che è veneta l’attitudine al lavoro. Fino a pochi decenni fa eravamo contadini, abituati a lavorare senza posa, ogni giorno, compresa la domenica. I modelli rimangono dentro, le parole volano via. Ed io ho quei modelli».
Anche il Veneto, però, vive un problema che affligge tante nostre imprese: il familismo e il faticoso passaggio di consegne da padre in figlio.
«Quando costruisci la tua fabbrichetta, può essere doloroso vederla finire in altre mani. Detto questo, bisogna però avere il coraggio di affidarsi a bravi manager e di pensare al bene dell’azienda, questa deve essere la priorità».
F&M a quali Paesi punta ora?
«Continueremo la nostra espansione in Medio Oriente e nei Balcani».
E l’Africa, non è il continente trascurato per definizione?
«È una realtà molto, molto difficile».
Cina?
«Siamo stati in Cina per ben dieci anni, abbiamo realizzato progetti anche con Mario Cucinella. Però abbiamo costi troppo alti per gli standard cinesi, ci rimangono solo le nicchie specializzate che loro non riescono a coprire, ma a breve copriranno anche queste».
E forse il problema sarà inverso?
«Temo proprio questo. In Cina hanno ottime scuole, le famiglie credono fortemente nell’importanza dell’educazione, il livello di preparazione degli ingegneri cinesi continua a migliorare».
Dobbiamo aspettarci un’ondata di ingegneri cinesi in Europa?
«Rispondo citando un fatto. È una società cinese ad aver vinto l’appalto del porto di Venezia, anche forte dell’esperienza maturata con il Porto di Shanghai. E per capire l’evento bisogna subito dire che questa società ha avuto la possibilità di investire 4 milioni nel progetto preliminare. Ribadisco il concetto di prima: con i soldi del Pnrr corriamo un gran pericolo: alla fine lavoreranno soprattutto studi stranieri».