La Lettura, 14 novembre 2021
Intervista a Jared Leto
«Paolo sei un Gucci, vestiti come si deve». Aldo Gucci/Al Pacino rimprovera il figlio: la testa calva, i baffi, indossa un vestito rosa di velluto a coste: «Ma è chic», risponde, in quello che in inglese è un eccentrico accento italiano. Nonostante gli scatti rubati in aprile sul set a Roma e Milano e le immagini ufficiali, si fatica a riconoscere Jared Leto dietro al trucco e alla protesi che lo trasformano in Paolo Gucci (1931-1995) nel nuovo film di Ridley Scott, House of Gucci (in Italia arriva il 16 dicembre).
Leto (50 anni il 26 dicembre, «Ne riparliamo tra un anno quando avrò digerito la cosa») divide il set con Al Pacino e affianca i protagonisti Lady Gaga e Adam Driver, volti di Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci, nel racconto «ispirato alla storia vera» che ricostruisce quasi trent’anni della saga familiare dei Gucci (Paolo e Maurizio, cugini, sono figli rispettivamente di Aldo e Rodolfo – Jeremy Irons nel film —, a loro volta figli di Guccio Gucci che nel 1921 fondò il marchio a Firenze). Sono gli anni che dal primo incontro tra Maurizio e la futura moglie Patrizia Reggiani portano alla mattina del 27 marzo 1995, quando il presidente di Gucci dal 1983 al 1993 fu assassinato all’ingresso del palazzo in via Palestro 20 a Milano che ospitava l’ufficio della sua società, nata dopo la vendita delle quote della casa di moda con le due G. Come mandante dell’omicidio, Patrizia Reggiani fu condannata nel 1998 a 29 anni (diventati 26 in appello e finiti di scontare per «buona condotta» nel 2016).
Nel film quegli anni di faide familiari e guerre di potere sono ricostruiti come in una tragedia shakespeariana a partire dal libro House of Gucci. Una storia vera di moda, avidità, crimine di Sara Gay Forden (appena uscito in Italia per Garzanti, traduzione di Bettina Cristiani, pp. 464, e 18). E dopo le prime proiezioni c’è già chi grida all’Oscar per Lady Gaga e per l’irriconoscibile Jared Leto che regala una nuova incredibile trasformazione.
Per entrare nei panni di quello che a fine anni Settanta fu vicepresidente di Gucci, ma poi fece infuriare il padre e lo zio quando lanciò un suo marchio che manteneva però il nome di famiglia, a Jared Leto servivano sei ore di trucco ogni giorno. Che sembrano normale amministrazione per l’attore e frontman dei Thirty Seconds to Mars. Specie se paragonati ai 13 chili persi per interpretare una donna trans nel film che gli portò l’Oscar (da non protagonista), Dallas Buyers Club; oppure ai 12 chili in meno e i mesi in strada per rendere al meglio l’eroinomane di Requiem for a Dream; o i quasi 30 chili presi per portare sullo schermo Mark David Chapman, l’assassino di John Lennon, in Chapter 27 («Cambi il modo in cui cammini, parli e ridi, e anche la gente ti tratta diversamente»). Leto ha seguito il suo approccio anche con Paolo Gucci, consapevole che: «Stai facendo un dipinto, non una fotografia; un’imitazione, non un documentario».
Come è entrato nel ruolo?
«Ho fatto molte ricerche. Quando accetti un ruolo così, inizi un viaggio per dare vita al personaggio nel modo più autentico possibile, soprattutto se si tratta di una persona reale. Leggi tutto quello che puoi, studi per conto tuo – ma naturalmente ero circondato da un grande staff italiano che aveva il compito di insegnarmi la lingua, l’accento —, ti immergi in tutto ciò che ha a che fare con il vostro Paese, la cultura, il cibo. Ed è stato un vero piacere, perché amo l’Italia. È stato bellissimo girare il film proprio lì. È un po’ come con una scultura, e tutti i cliché che la circondano, il fatto che non crei veramente qualcosa ma riveli ciò che è già lì ad aspettare sotto la pietra. Anche in questo caso si è tratto di un processo di rivelazione, non solo creazione».
Al Pacino, che nel film è Aldo Gucci, padre di Paolo, quando l’ha incontrata sul set non l’ha riconosciuta. È l’obiettivo ultimo per un attore essere identificato completamente con il proprio personaggio?
«Non ci eravamo visti alla vigilia delle riprese. Il primo giono sul set mi sono avvicinato per salutarlo. Ero già truccato da Paolo e mi ha detto di andarmene al diavolo. Pensava fossi un maniaco. Ci ho riprovato e ha tentato di nuovo di cacciarmi; poi qualcuno gli ha detto che ero io: è quasi caduto per terra dallo stupore, non poteva crederci, mi ha abbracciato urlando: “Mio figlio! Mio figlio!”. Il fatto che uno dei più grandi attori del mondo credesse che fossi un’altra persona e ne fosse così convinto da arrivare a respingermi, proprio come Aldo fa nel film, è stato bellissimo. Mi ha dato la fiducia di cui avevo bisogno per entrare nel progetto».
Il volto e il corpo sono lo strumento di lavoro per un attore. Qui sono modificati completamente. Per lei è una sfida o un aiuto per l’interpretazione?
«Sono il mio volto e il mio corpo e lo rimangono anche nel film. Il fatto che qualcuno veda in me una nuova persona, che gli spettatori si fidino, credano e seguano fino in fondo quella vita in assoluta libertà è il complimento più grande. È il potere della maschera, che può nascondere ma allo stesso tempo rivelare».
Quali sono stati gli aspetti che l’hanno avvicinata di più al personaggio?
«Sono entrato veramente in connessione con Paolo Gucci come artista e come persona che vuole condividere il suo lavoro con il mondo, magari dovendo talvolta affrontare la frustrazione, mentre in altri casi è travolto dalla speranza e dai sogni. Sono entrato in connessione con lui in tanti modi diversi. Credo che sia fondamentale per interpretare una parte come questa».
Nel film Paolo Gucci viene dipinto come la pecora nera della famiglia. Lei ha provato quel tipo di rifiuto?
«Nella mia famiglia siamo tutti pecore nere, a nostro modo siamo tutti eccentrici. Paolo è l’outsider, il più difficile da comprendere, ma è anche il cuore della famiglia. Direi che fu un creativo rivoluzionario che ha lasciato un segno importante nel brand. Ho amato molto la parte, e con il personaggio mi sono divertito».
Quando sono state diffuse le prime immagini, gli eredi della famiglia Gucci hanno criticato il film e l’aspetto (non corrispondente alla realtà) dei personaggi interpretati da lei e da Al Pacino.
«Rispetto molto Paolo Gucci, l’ho riportato in vita con il massimo della dignità e della grazia che riuscivo a gestire. Sono orgoglioso di aver potuto camminare nelle sue scarpe. Il mio personaggio non sarà mai Paolo Gucci, ma è un’impressione, un’idea di quello che è stato».
«House of Gucci» non è solo un film su un omicidio...
«Credo sia un film sulla speranza, sull’amore, sul tradimento, sulla passione, sulla moda e... sulla pasta (ride)».
Lei ha un forte legame con il brand Gucci e con l’attuale direttore creativo Alessandro Michele. Qual è il suo rapporto con la moda?
«Non direi che sono interessato alla moda, mi interessano più l’arte, la creatività. Non so niente del business della moda, di stile e cose così. Trovo straordinarie l’abilità artistica e artigianale, la capacità di realizzare un sogno».
Ha partecipato alla Gucci Love Parade, sfilata evento dello scorso 2 novembre sulla leggendaria Hollywood Boulevard, e a ogni tappeto rosso stupisce con un nuovo look. Qualcosa che la diverte o l’imposizione degli stylist?
«Non ho uno stylist, non dico di non avere stile, ma nemmeno di averlo. Mi piace correre rischi, non prendo tutto questo molto sul serio. È più divertente».
Com’è stato lavorare con Ridley Scott?
«Un sogno. È uno dei miei eroi. Ha diretto alcuni dei film più belli della storia del cinema. È stato un onore immenso lavorare con lui. E con Al Pacino, che è un dio tra i mortali. Sono grato di avere potuto far parte di questo folle viaggio».