La Lettura, 14 novembre 2021
È ancora la città agra di Bianciardi
Nella comunità, «anche se non proprio religiosa» (come specificò il fotografo Mario Dondero), che si ritrovava al «bar delle Antille», ovvero al Giamaica, luogo di convegno della «desolata scapigliatura di via Brera», c’era Luciano Bianciardi. Nel 1962, ne La vita agra, lo scrittore maremmano dipinse un affresco di una Milano dominata dal «torracchione» che voleva buttare giù con la dinamite, simbolo della ybris della metropoli di quegli anni, ora soppiantato dai nuovissimi grattacieli nati intorno all’Expo 2015.
A ricordarci quanto sia ancora necessario leggere questo irregolare per indole e destino, appassionato degli eroi del Risorgimento, c’è una doppia ricorrenza in arrivo: l’anniversario della morte, avvenuta il 14 novembre di cinquant’anni fa a Milano; il centenario della nascita, il 14 dicembre 1922, a Grosseto, la città che lo scrittore aveva abbandonato nel 1954, sconvolto dall’esplosione della miniera della Montecatini a Ribolla, in Maremma, nella quale erano morti 43 operai. Bianciardi rimase 4 giorni nella piana di Montemassi e vide tirar fuori dalla miniera quei corpi ricomposti nella sala delle proiezioni cinematografiche. Un’esperienza dalla quale nascerà Minatori della Maremma, l’inchiesta scritta assieme a Carlo Cassola.
Varie iniziative sono state organizzate in questi mesi per ricordare la morte dello scrittore, in attesa del centenario per il quale è stato costituito un Comitato nazionale per le celebrazioni, promosso dalla Fondazione Bianciardi di Grosseto, cui fanno capo un archivio e una biblioteca dove sono conservati e valorizzati scritti, carte, materiali audiovisivi e altra documentazione. A Grosseto, Bianciardi era stato professore, bibliotecario, animatore di una cineteca e della vita culturale della città; a Milano era arrivato a 32 anni, in treno, con una valigia e l’indirizzo di una pensione scritto su un biglietto stropicciato, chiamato da Gian Giacomo Feltrinelli a contribuire alla «grossa iniziativa» dell’apertura di una rivista di cinema prima e di una casa editrice poi. Geno Pampaloni notò che nei romanzi e negli articoli di quest’intellettuale scomodo, mai troppo amato dallo «stabilimento» culturale, nemmeno quando, con La vita agra appunto , il successo gli esplose tra le mani: «C’è l’inumanità cui è ridotta la folla delle metropoli, la nausea del traffico, il rifiuto del successo, il rifiuto del consumismo, la satira del mondo editoriale», scrisse.
Al rapporto con la metropoli lombarda, fulcro di questa «contestazione generale al sistema», Gaia Manzini dedica il volume A Milano con Luciano Bianciardi che l’editore Perrone pubblica nella sua collana Passaggi di dogana e che viene presentato a BookCity. Il testo ripercorre passo dopo passo la Milano fervente del boom economico, i luoghi della vita di Bianciardi in una città che non amava ma da dove non riuscì ad andarsene, intrecciandoli con quelli dell’autrice che a Milano è nata. «Di Luciano Bianciardi – scrive Manzini – mi è subito piaciuto il nome. Luciano evoca luce, chiarore; il cognome arriva dopo per rinforzare: ribadisce che, se di luce si tratta, deve essere quella bianca del mattino. Sembra il nome di un profeta o di un filosofo, qualcuno di pacificato; d’altronde la sua voce vellutata sembrava confermarlo. Oppure potrebbe essere il nome di un violoncellista, quale era. Nelle stanze milanesi dove ha vissuto c’era sempre il violoncello chiuso nella custodia; si alzava e lo suonava, piegando la testa sullo strumento come un motociclista in curva».
La scrittrice si immagina Bianciardi camminare con i pugni in tasca e il cappotto scuro con il bavero alzato; va a cercare quel torracchione, simbolo della Montecatini, la società proprietaria della miniera di Ribolla, le cui coordinate Bianciardi dà soltanto nella Lettera da Milanoapparsa sul «Contemporaneo» nel 1955 («A Milano invece la Montecatini è una realtà tangibile, ovvia, cioè si incontra per strada, la Montecatini è quei due palazzoni di marmo, vetro e alluminio, dieci, dodici piani all’angolo tra via Turati e via della Moscova»). Ripercorre l’amore con Maria Josti che lo raggiunge da Roma; evoca le pensioni a poco prezzo in cui lo scrittore vive, a partire da quella della signora Tedeschi in via Solferino 8 dove Bianciardi elegge il suo domicilio (8 mila lire al mese, senza servizi). Lo racconta anche Angelo Ferracuti nel suo Non ci resta che l’amore. Il romanzo di Mario Dondero, appena pubblicato dal Saggiatore: «Un luogo – rievocava il fotografo – super simpatico dove noi, tra l’altro, avevamo un ingresso clandestino, in quanto la padrona non sapeva che potevamo aprire un’altra porta, oltre a quella principale, dalla quale introducevamo tutti coloro che chiedevano di venire a dormire».
Sfilano i luoghi di una Milano che ha cambiato faccia: il locale di via Palermo dove si giocava alla pelota basca e dove andavano anche Strehler, Walter Chiari, i pittori di Brera (se qualcuno vinceva, poi pagava da bere agli altri); il Soldato d’Italia dove si mangiava cassoeula per mille lire o il ristorante delle tre sorelle Pirovini – Lina, Lena e Cecilia – appassionate di lirica, sempre pronte a salire in piccionaia alla Scala; il Derby dove Bianciardi va per sentire Enzo Jannacci cantare le sue «storie di papponi, barboni, sprovveduti senza ombrello» e dove incontra Giacomo Manzù e Dino Buzzati. La Milano degli anni difficili e quella del successo, quando cominciano a reclamarlo i salotti «nei quali si muove senza avere i modi giusti, i vestiti giusti; ci va con il gusto del sovversivo».
Quella città non c’è più ma, scrive Manzini, «rileggere Bianciardi ora ha un sapore profetico» per riconoscere quell’anelito di futuro che Milano ha nel Dna. Quella tensione verso l’alto continua ad esserci, insieme al rischio che «per procedere si dimentichi del passato».