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 2021  novembre 14 Domenica calendario

Intervista a Stefanos Tsitsipas

La Torino immaginaria di Stefanos Tsitsipas è «una città piena di storia, la casa della Fiat, dove si costruiscono le Ferrari», il profilo al momento è leggermente confuso, ma sta per essere messo a fuoco. E non solo con il tennis.
Tsitsipas è nei meravigliosi otto che si giocano le Atp Finals, passate da Londra all’Italia. Il trasloco non è l’unico cambio di scenario del torneo pensato per stabilire chi è migliore della stagione: non c’è Federer, non c’è Nadal e l’unica sfida senza entrambi risale al 2016. Allora sembrava una coincidenza, oggi le due assenze fanno pensare al cambio della guardia. Si parte ancora da Djokovic, numero uno in classifica, ma dietro di lui c’è una foto in via di sviluppo, ancora tutta da capire.
Tsitsipas ci arriva da numero 4, con un gomito che gli dà fastidio e con la macchina fotografica al collo. Se la porta spesso dietro nelle trasferte anche se ne ha troppo rispetto per usarla a prescindere e preferisce trasformarsi in cacciatore di inquadrature quando non ha una competizione in testa. Insegue storie, strade, palazzi, scorci. Gli piacerebbe conoscere Torino così e per questo non cerca altre informazioni sulla città, sarà il suo obiettivo a definirla. Non in ogni viaggio trova il tempo per aggiornare la collezione, ma in ogni torneo succede qualcosa che lo mette al centro della curiosità, del gioco, delle chiacchiere, dei social. Stefanos Tsitsipas, 23 anni, il bello del circuito, il predestinato, talentuoso, determinato, creativo, riservato, patriottico ragazzo nato ad Atene che ha scoperto pure il fascino della critica.
Che cosa si aspetta da queste partite italiane, che ambiente pensa di trovare?
«Non sono mai stato a Torino, per me è tutta da scoprire. L’Italia ha una grande cultura tennistica, ci sarà un notevole coinvolgimento e mi sembra difficile immaginare dei problemi perché amate questo sport. Ogni gara organizzata in Italia ha un pubblico competente e partecipe. Ci divertiremo. Non faccio previsioni sulle partite, ma sul calore sì».
A Torino, a Camera, c’è una mostra fotografica di Martin Parr dove la maggior parte degli scatti sono stati fatti durante i grandi slam. Solo dietro le quinte: tribune, tifo, gente che viene per guardare e altra per essere vista. Lei come percepisce il pubblico mentre gioca?
«Li considero degli ammiratori, ammiratori del mio lavoro, intenditori: persone che rispettano quello che faccio. È un pubblico preparato».
Lei ha mai avuto voglia di inquadrare gli spalti?
«Non ci ho mai pensato o meglio, magari ho valutato l’ipotesi di fare qualche scatto nel backstage, ma ho scartato il progetto. Ci sono solo tennisti, non è emozionante. E poi non mi va di mescolare il piacere con il lavoro».
Che tipo di foto ama fare?
«Vie, architetture, ritratti».
Farà il fotografo a Torino?
«Sì, spero. È una città che offre degli spunti? Se le Atp hanno fatto un calendario che mi lascia del tempo certamente cercherò degli angoli e delle persone che mi attirano. Sono curioso».
Fino a ora, quale è lo scatto che le ha dato più soddisfazione?
«Difficile, è come chiedere a un padre chi è il figlio preferito… comunque sceglierei il ritratto del mio agente, Nick: una persona che mi piace molto».
Ha detto che non le va di mischiare il lavoro con il piacere.
«Con lui è solo piacere, è un amico».
Meglio esprimersi con il tennis o le foto?
«Con il tennis. Con le foto non ho le stesse possibilità di guadagno».
Le Atp Finals hanno un italiano nei primi otto, Matteo Berrettini e uno come riserva, Jannik Sinner. Che cosa pensa di loro?
«Conosco di più Matteo, l’ho incrociato spesso e abbiamo chiacchierato. Jannik sembra più introverso. Mi piacciono entrambi e capisco che per l’Italia sia un gran momento. Immagino che avere giocatori di questo livello faccia aumentare l’interesse per il torneo».
Dopo Federer e Nadal qualcuno della sua età è pronto a lasciare il segno o siamo ancora fermi ai paragoni?
«Spero si possa passare oltre. Se continuiamo con i paragoni non andiamo avanti. Loro hanno fatto una strada fantastica, Roger, Rafa e anche Nole Djokovic che è a Torino, tutti hanno fatto vivere al tennis un’era speciale con partite pazzesche. Io ho il mio modo di stare in campo e farò la mia storia, come tutti i miei colleghi ventenni. Sarebbe molto ingiusto se si continuassero a elencare solo i loro risultati per usarli come metro del successo. Non si può partire da lì».
Quando lei era un ragazzino la Grecia si è ritrovata nella sua peggiore crisi economica. Come ha vissuto quel periodo?
«Quegli anni storti sono il motivo per cui ho iniziato a giocare a tennis. Sono stati la mia molla. Sono cresciuto in una situazione complicata dalla quale volevo scappare, volevo un futuro per me e per la mia famiglia, volevo prendere le distanze da certi giudizi crudeli che chiunque si permetteva di fare. Sei greco? E allora sei buona a nulla. Il tennis mi ha subito dato delle opportunità, mi ha permesso di mostrare un valore. Ora il mio Paese sta meglio, si è rimesso in piedi dopo una situazione disastrosa, non siamo ancora del tutto usciti dalle difficoltà, ma ci stiamo riprendendo. Io sono orgoglioso di essere greco e spero di dare un po’ di soddisfazione con i miei risultati».
Una motivazione o una pressione?
«Ho vissuto molto male il periodo della crisi conclamata. Mi sentivo poco considerato: la Grecia era nel caos, quindi anche io finivo dentro il marasma. È così che funziona il razzismo e l’ho vissuto sulla mia pelle, l’ho patito. Mi ha dato anche la forza di allontanarmi da uno stereotipo però, quegli insulti gratuiti hanno innescato la voglia di dimostrare chi ero veramente e di che cosa sono capaci i greci. Il collasso economico era un fallimento della politica, non delle persone ma a un certo punto era come se si fosse perso il senso. Mi mettevano in mezzo».
Perché ce l’avevano con lei?
«Ci sono persone che ti identificano con i problemi del posto da cui vieni. E sono tante. La Grecia era un casino e dovevo per forza essere un casino anche io. E poi invece quelli che mi accusavano di fregarmene perché giocavo a tennis. È stata tosta e quella fase mi ha insegnato a non dare giudizi, a cercare di valutare chi ho di fronte per come si comporta davvero. Di solito, quando qualcosa va storto si incolpano le persone sbagliate, per le ragioni sbagliate. Si sposta l’attenzione dalla cause reali, magari ben più difficili da centrare. Qualunquismo, una pessima abitudine di cui dovremmo disfarci tutti».
Nelle sue foto su Instagram alza spesso dei cartoni con delle scritte. Da «Indovinate chi ha la faccia sopra un paio di scarpe» a «Salviamo il pianeta terra, è l’unico con la cioccolata».
«Ho copiato l’idea da un tizio che ho incontrato, una persona che non ha nulla a che fare con il tennis. Vive a New York, abbiamo collaborato in progetti extra sport. Gli ho visto fare e postare questi cartelloni e non gli ho rubato l’idea, gliela ho dichiaratamente copiata. Mi diverte, è il mio modo di comunicare, di cercare un contatto con chi mi segue e non mi conosce. Combacia con la mia personalità perché è un linguaggio ironico e diretto. È un modo di protestare senza essere antipatici».
Suo padre è anche suo allenatore e c’è tutta una letteratura sui tecnici in famiglia. Spesso va a finire male oppure, alla lunga, vengono fuori tensioni di ogni tipo. Voi come mantenete l’equilibrio?
«Lo faccio mangiare bene e lui è felice. Tutto qui».
È sempre stato quello bravo, bello, con il tennis elegante. Poi arrivano gli ultimi Us Open e diventa il campione che sta in bagno per sette minuti e fa innervosire Murray. Che effetto le ha fatto sentir parlare male di lei, per la prima volta?
«È stato quasi bello essere il cattivo. Di media, nel circuito, sono il ragazzo a posto che deve sempre rispondere a quell’ideale di persona e cambiare prospettiva per un po’ mi ha fatto sorridere. Non sono certo andato al bagno per dare fastidio a qualcuno o per provocare una reazione o per stressare il sistema o fare dispetti. Niente di tutto ciò. Mai mi sarei immaginato tanto rumore e tanta indignazione, sono andato in bagno come fa qualsiasi altro essere umano».
Ci ha messo molto.
«Non capisco perché la gente l’abbia presa sul personale. Ancora proprio non trovo una buona ragione: mi hanno rivoltato contro una pausa perfettamente legittima. Ci ho messo il tempo che mi serviva, non ho usato quei minuti per fare qualcosa di sbagliato o per essere perfido. Quel che è successo dopo è insensato. Ora penso a tutto questo clamore per una stupidaggine come a uno di quei meme che girano ossessivi sui social, quando succede qualcosa di buffo e continua a circolare sempre la stessa immagine con gli abbinamenti più ridicoli. La pausa toilette non era affatto nata come una cosa buffa, è successo e me la tengo così. Del resto è proprio da me passare per il cattivo di turno per essere andato in bagno».