Specchio, 14 novembre 2021
Intervista a Kerry Kennedy
Kerry Kennedy è presidente di Robert F. Kennedy Human Rights, fondata nel 1968 dopo l’assassinio di suo padre. Ha dedicato più di 40 anni alla causa della giustizia per tutti, della promozione e protezione dei diritti fondamentali e della supremazia della legge.
Quali sono le grandi sfide che la pandemia ha portato a un mondo in cambiamento?
«Molte cose sono cambiate, per noi e per il mondo, ma molte sono anche rimaste immutate. I vaccini vengono distribuiti negli Stati Uniti, in Europa e nei Paesi ricchi. Il resto del mondo invece non ha quasi accesso ai vaccini, e nei Paesi in via di sviluppo è vaccinato meno del 2%. Il mondo sviluppato se li accaparra per mettere al sicuro i propri abitanti prima di renderli disponibili a tutti gli altri. Questa è una pandemia globale e pensare di poter chiudere il proprio Paese e stare al sicuro vaccinando il 90% degli abitanti significa non sapere nulla di scienza».
Lei è amica di Joe Biden. Sta gestendo bene i problemi?
«Conosco Joe Biden da tutta la vita. Gli voglio bene e conosco i suoi valori. Ha molto a cuore la gente, soprattutto chi è in difficoltà, perché sa cosa significa. Ma a Washington ci sono divisioni troppo profonde: i repubblicani preferirebbero vederlo perdere piuttosto che approvare le sue proposte, anche se vanno a beneficio dei loro stessi elettori».
L’America si è ritirata dall’Afghanistan, si sta chiudendo al mondo?
«Quando mio zio Jack era presidente, avevamo pochissime truppe all’estero. Oggi siamo presenti in più di 70 Paesi. Abbiamo speso tre trilioni di dollari in Afghanistan. Avremmo potuto costruire scuole, strutture sanitarie, istituzioni, farne un Paese diverso, invece l’abbiamo bombardato. Ritirarsi è stata una cosa giusta, anche se si sarebbe potuta fare meglio».
Robert F. Kennedy Human Rights sta lavorando su questi temi?
«I gruppi umanitari danno da mangiare ai bambini, inviano vestiti, aiuti sanitari. I gruppi dei diritti umani si interrogano sul perché i bambini hanno fame. Spingono governi e investitori di grandi corporazioni a rispettare le norme internazionali sui diritti umani, nate dall’esperienza della II guerra mondiale e delle atrocità dei nazisti. Prima, nessuno aveva il diritto di obiettare al modo in cui un governo trattava i propri cittadini. Dopo, le nazioni hanno deciso che non potevano più permetterlo, che ogni essere umano nasce con gli stessi diritti, e che vanno tutelati».
Che progressi vede dal giorno in cui sua madre creò la fondazione dopo la morte prematura di suo padre?
«Ho visto cambiare tante cose. Quando ho iniziato a lavorare a RFK Human Rights, nel 1981, quasi tutta l’America Latina era governata da dittature militari di destra, oggi non ne è rimasta nemmeno una. Tutta l’Europa dell’Est era sotto il comunismo. Nel Sudafrica regnava l’apartheid. I diritti delle donne non erano nemmeno nell’agenda internazionale. Tutti questi cambiamenti però non sono accaduti per volere dei governi, degli eserciti e delle multinazionali, che al contrario li avevano osteggiati. Sono arrivati grazie a piccoli gruppi di persone determinate. Le Ong cavalcano il sogno della libertà e lo rendono realtà. Nascono da qualcuno che dice "abbiamo un problema che il governo non sta risolvendo, e nessuna società verrà a risolverlo, tocca a noi"».
Cosa pensa del Me Too?
«È di straordinaria importanza. Una donna su tre subisce molestie sessuali. Negli Stati Uniti le nostre figlie corrono un rischio di uno su quattro di venire aggredite sessualmente in una stanza... Bene, questo però significa che lei dovrebbe dire a sua figlia che non può andare in un’università americana, meno che mai in una di quelle prestigiose della Ivy League. Il Me Too non riguarda soltanto le aggressioni a sfondo sessuale, si tratta di rispettare la dignità umana. Le corporazioni devono rimuovere dalle relazioni di lavoro le dinamiche di potere, sesso e gender».
Lei ha tre figlie. Provano ansia per questo nostro mondo?
«In tutto il mondo la gente è preoccupata per il cambiamento climatico, la crisi della democrazia e l’ondata di radicalismo, ma non voglio parlare di ansia. Nel 1962 il presidente Kennedy disse che la guerra nucleare con la Russia poteva iniziare in qualunque momento! Nei cinque anni successivi, furono assassinati lui, Malcolm X, Medgar Evers, Martin Luther King, Robert F. Kennedy, mio padre. Dopo la morte di Martin Luther King, 117 città americane furono messe alle fiamme, e Dover, nel Delaware, rimase sotto legge marziale per nove mesi».
Qual è la differenza tra vittima ed eroe?
«L’attivismo. Si è vittime fino a che non si passa all’azione».
Come riuscite a far rispondere i governi per l’abuso dei diritti umani?
«Abbiamo denunciato la Colombia per l’uccisione di Nelson Carvajal e vinto la prima causa nella storia dell’America Latina in cui un governo ha dovuto rispondere dell’omicidio di un giornalista. Pochi mesi fa, abbiamo portato in tribunale il governo dell’Honduras per l’omicidio di una persona lgbtq. Quando l’Uganda ha penalizzato l’omosessualità con la prigione senza diritto di libertà anticipata, abbiamo querelato il governo costringendolo a cambiare la legge».
Anche altri membri della famiglia Kennedy partecipano alla fondazione?
«Nessuno a tempo pieno. Mia madre a 93 anni è ancora nel consiglio, insieme a mio nipote Joe Kennedy e mia figlia Cara. I miei fratelli, cugini e nipoti sono tutti coinvolti».
I pregiudizi nella società sono ancora molto forti?
«Certamente, e buona parte del nostro lavoro si concentra sull’educazione ai diritti umani dall’asilo fino alla facoltà di legge. Insegniamo agli studenti quali sono i loro diritti, come promuoverli e come organizzarsi, così imparano a mettere insieme amici e familiari per lanciare il cambiamento. Delle 15 persone che progettarono l’Olocausto, 7 avevano lauree o dottorati, quindi l’istruzione da sola non basta, bisogna educare le persone ai diritti umani».