Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  novembre 14 Domenica calendario

Vitalino Morandini, il bambino diventato serial killer

L’uomo era ancora vivo quando il carnefice ne afferrò il braccio per legargli i polsi, con una fune, alla mucca più selvaggia della fattoria e quindi fustigare l’animale. Questo, impaurito, iniziò a correre per i campi e a scalciare lungo le montagne orobiche, trascinando la vittima per i dossi. E dietro i resti di quel corpo irriconoscibile, prima dai colpi di scure inferti e poi dai sobbalzi, sempre più contorto su se stesso, si intravede la volontà non solo di sfigurarne ogni tratto, ma di privarlo d’identità e storia. L’autore vuole colpire non solo l’essere inerme ma anche l’anima e lo spirito, sottraendogli qualsiasi umanità. La violenza viene perpetrata, delegando un inconsapevole animale a finire lo scempio ed esporre soltanto la vittima, celando la genesi, l’origine del male. E anche il dolore inimmaginabile patito nella progressiva distruzione del corpo che rimane lì, inerme, scivolato in un canalone del bergamasco. Siamo nell’inverno del 1955, agli inizi di novembre, quando il cadavere viene ritrovato in quest’angolo di natura pressoché incontaminata, lontana dai laboratori, dall’esame di un patologo forense che possa decifrare la scena del crimine. Il medico condotto che sale e analizza quei poveri resti e si confronta con i carabinieri propende per la fatalità: una morte spaventosa dovuta all’azzardo di legare l’animale con una corda al proprio polso. Già riuscire a identificare la vittima, tal Giovanni Morandini, mandriano del luogo, pare un mezzo miracolo. E i giornali dell’epoca fanno eco all’ipotesi della disgrazia: con titoli assai netti: «Assalito a cornate da una mucca, precipita da un pendio e muore mandriano di Adrara San Rocco».
L’impunità consente di proseguire nella scia di sangue. «Mi accorsi di non essere rimasto minimamente impressionato. Compresi allora che uccidere era facile e continuai». Non passano nemmeno due settimane e un incendio devasta cascina Sprovo. Perde la vita l’intera famiglia Valtulini: moglie, marito e il figlio di pochi anni. Il 28 dicembre a Grone, sempre in provincia di Bergamo, a pochi chilometri di distanza, Caterina e Battista Oberti vengono uccisi a picconate mentre dormono nella loro cascina. I figli, però, non vengono toccati. Dai cassetti spariscono 40mila lire in contanti.
È il 23 gennaio quando alle due di notte viene sterminata una famiglia a Pontoglio: Cesare Giuseppe Breno, la moglie Colomba e la figlia Emilia vengono uccisi, con un sasso infilato in un sacco, nella casa sopra la tabaccheria che gestivano in paese. Quest’ultimo eccidio cambia la prospettiva investigativa nelle indagini. I carabinieri non pensano più al gesto di un ladro senza scrupoli. Sospettano che un killer seriale agisca impunito nella bergamasca. Un’ipotesi alla quale contribuisce un inatteso colpo di fortuna. Sempre il 23 gennaio i giudici riaprono le indagini sulla strage a Sprovo, che era stata archiviata ritenendo l’incendio accidentale. È infatti Bernardo Valtulini a presentarsi in caserma con il libretto postale numero 423 di proprietà della famiglia. Il documento era stato ritrovato durante la ristrutturazione della cascina, tra le sterpaglie, a una ventina di metri dalla cascina. È la prova che la cascina è stata al centro di una rapina finita in strage.
A colpire nella bergamasca in soli tre mesi a cavallo tra il 1955 e il 1956, è un angelo, sì esattamente un angelo, un uomo che per il suo carattere riservato, buono, gentile, per quel piglio offeso che l’assaliva all’udir una sola bestemmia o una parolaccia, pareva un’anima bella, un eletto, un angelo appunto. Vitalino Morandini nato nel 1916 in zona, ad Adrara san Rocco. Vitalino da bambino era così: mai una parola fuori posto, mai una disobbedienza. I genitori si spaccavano la schiena nei campi, a mondare i frutteti, potare le vigne. Lui li aiutava, alternandosi tra tabelline e filari, conserve e quaderno di scuola. I risultati erano ottimi anche se quelle braccia sarebbero servite più ad aiutare in famiglia che a istruirsi a scuola. E così in quell’Italia della miseria di certe campagne, Morandini in quarta elementare abbandona gli studi, lascia calamaio e libri per zappa, gerla e carriola.
Ma a 15 anni quel bambino triste, silente, divenne sempre più fragile, irrequieto, desideroso di libertà. Aiutava i genitori sempre più malvolentieri, tardava nei lavori, a volte nemmeno si presentava. La smania di fuga affogò nell’illegalità e così già nel 1935 il contadino dovette rispondere di furto. Le guardie lo portarono in carcere dove rimase un mese intero, accollandosi anche la sanzione pecuniaria di 500 lire, un’enormità corrispondente a quasi 600 euro di oggi. Superata la galera venne mandato in guerra per il servizio militare. Infatti, il 6 aprile del 1941 il Regno di Jugoslavia era stato invaso dalle forze dell’asse e quindi tedeschi, italiani e ungheresi. Non sembra che l’uomo abbia eccelso nel conflitto, anzi, in pratica fino al giorno della Liberazione visse senza fissa dimora, vivacchiando tra ruberie ed elemosina. Tornò nella bergamasca, ma questa volta lontano dai genitori e dalle guardie. Per questo raggiunse il paese natio ma scelse una casetta isolata, icona del suo vivere solitario, a un’ora abbondante di cammino dalla chiesa di san Rocco e dal municipio. Morandini individuava il fattore da colpire, cercava di capirne orari e abitudini per poi rubare gli animali. Non sempre però tutto va bene. Nel 1949 si prende una condanna di carcere per il furto di un asino, di tre capre, undici pecore e un discreto gruzzolo di banconote, oltre 240mila lire, in pratica oltre 4.400 euro di oggi, ai danni del cugino Giovanni. La pena comminata non sarà cosa da poco: sei anni di reclusione.
Nella mente di Morandini questa sentenza è come un big bang. Nulla sarà come prima. In quegli anni dietro le sbarre coltiva un desiderio profondo di vendetta, di uccidere il cugino Giovanni Morandini. In cella fantastica su come agire, immagina soluzioni ma non trova mai quella giusta. Anche nel carattere la detenzione a Castiadas, la più antica colonia penale d’Italia in Sardegna a Villasimius, gli scolpisce il carattere. Morandini non si fida più di nessuno. Quando esce dalla prigione e torna a casa non è più lo stesso. Evita amici e conoscenti, torna schivo come da ragazzino a scuola. Una zia nella vicina Pontoglio lo ospita, c’è chi gli offre un lavoro, la “seconda possibilità” per costruirsi una nuova vita. Ma un senso di disonore, di profondo fallimento deve aver prevalso. Giovanni doveva essere punito: «Doveva pagare. Sono rimasto sei anni in prigione per colpa sua». E così iniziò a seminare terrore e morte nella bergamasca. Del resto già in passato la famiglia Morandini era stata colpita da lutti irrisolti. Nel 1947 infatti morì misteriosamente Pasqua Elisabetta Bresciani, mamma di Giovanni Morandini nonché zia di Vitalino. Anche lei vittima di un furto di pecore da parte del nipote Vitalino. La donna non volle denunciare e si limitò a segnalare il nipote ai carabinieri. E anche in quell’occasione le indagini si conclusero ritenendo la donna vittima di una disgrazia, come racconta L’Eco di Bergamo del 24 aprile: «La cinquantanovenne bresciana Elisabetta Morandini usciva in campagna per condurre al pascolo alcune capre. Presa da improvviso malore cadeva e ruzzolava lungo un breve pendio andando a finire contro una roccia rimanendo cadavere. Dalle prime indagini dei carabinieri non emergono responsabilità di terzi». Era stato Vitalino? I sospetti non mancano ma le chiacchiere rimasero sempre tali, senza alcun sviluppo processuale.
Il 17 marzo 1955 Morandini finisce arrestato. Durante l’interrogatorio crolla rapidamente e confessa tutti gli omicidi. In particolare sulla strage dei Breno spiega: «Non preparai nulla, mi sarei regolato sul posto. Con la punta di un chiodo ruppi il vetro della finestra già lesionato. Con delicatezza aprii il finestrino dall’interno. Avevo un paio di scarpe con la suola di gomma tipo carro armato. Presi la federa da guanciale, vi introdussi un sasso e lo legai al centro. Colpii tre volte Breno il quale si è svegliato. Non diede segni di lamento. La donna si stava alzando leggermente, la ferii. La stanza era fiocamente illuminata da una piccola lampadina. Andai nella stanza della figlia, la percossi più volte senza ucciderla. La ragazza colluttò con me ma poi riuscì a svincolarsi, fuggendo nel corridoio, verso la stanza da letto dei genitori. Tentò di aprire una finestra per chiedere aiuto. La raggiunsi e cadde sul letto. Mentre la colpivo si ruppe la federa con il sasso. Lo afferrai e continuai. Mi imbrattai di sangue solo le mani, le lavai nella mia casa. Sono pentito per quello che ho fatto, forse non lo rifarei più». Quando nel 1960 si aprì il processo, il caso coinvolse l’opinione pubblica di tutto il paese. Lui, ritenuto capace di intendere e volere, cercò di farsi passare per un semplice ladro, improvvisatosi assassino pur di non essere riconosciuto. «La testa mi diceva che dovevo uccidere. Era scritto, era come tirare il collo alle galline». Quattro ergastoli inflitti ma Morandini si impiccherà nel 1960 nella sua cella con nove persone uccise in pochi mesi, dal novembre del 1955 al gennaio del 1956.