Specchio, 14 novembre 2021
Mario Desiati si vestiva da Lucia di Lammermoor
Ho indossato spesso i panni di Lucia di Lammermoor. Avevo vent’anni quando assistetti alla prima opera lirica della mia vita in una notte di luglio, dentro l’atrio del Palazzo Ducale di Martina Franca con l’odore delle rose gialle, bianche e rosse che costituivano la scenografia. Le note dell’orchestra che ci preparavano al racconto sembravano attaccate alle stelle che trapuntavano il cielo sulle nostre teste.
Lucia di Lammermoor, l’opera di Gaetano Donizetti tratta da La Sposa di Lammermoor di Walter Scott, è la storia di un amore osteggiato per ragioni "di stato", di censo, di nobiltà e sangue. Lucia morirà di pazzia perché «Vittima di un crudele fratello» che la vuole obbligare al matrimonio con Arturo, aristocratico di altissimo lignaggio, a scapito di Edgardo, un nobile decaduto ma innamorato davvero della sua Lucia. Ci ho pensato spesso a Lucia di Lammermoor, perché è una grande riflessione sulla diversità, dunque la libertà. Andare tanto lenti da fermarsi e dare il nome a un albero, è uno degli insegnamenti che ci ha lasciato il sociologo e pensatore Franco Cassano dentro quel saggio chiamato Pensiero Meridiano, una sorta di manifesto intellettuale e politico uscito alla fine degli anni Novanta, un anno prima della mia esperienza con la lirica di Donizetti. Dare un nome agli alberi è la metafora di riconoscere la diversità degli altri. L’umanità è una foresta dove esistono tanti colori e tanti alberi diversi, ma a volte è apparentemente comodo non riconoscerli. Ma l’umanità è sempre andata avanti quando ha riconosciuto questa sua ricchezza.
Più sono le identità diverse, più sono riconosciute, più si è liberi. Ma rimane sempre la necessità di far capo a una patria, e come patria non intendo soltanto il territorio segnato da una frontiera, caratterizzato da una lingua e una moneta comune. Intendo una patria di convenzioni, che più che scritte sono invece dei non detti, una patria di usi, di modi di fare, di modi di amare, di esprimersi, di desiderare, dove è opportuno conformarsi alla maggioranza per non avere guai. Non parlo di anarchia, ma mi riferisco alla libertà di essere e di amare. All’identità e al desiderio.
La repressione è uno dei meccanismi con i quali per una vita, ho tentato di nascondere alcuni lati della mia identità che si andava formando, per essere accettato in questa patria, dove venivo chiamato "spatriato". Termine col quale in alcuni dialetti pugliesi si intende l’irregolare, lo sciatto, il disperso, il diverso. A volte ha accezioni positive, ma molto spesso è un modo negativo per dire, che non sei come gli altri. Per giunta è una parola senza genere, in molti dialetti si usa la schwa come lettera finale, in tempi di dibattito sul lessico inclusivo, un dato interessante su come la lingua si adatti al suo tempo.
L’identità è il viaggio che compie la nostra coscienza per essere il più possibile uguale a noi stessi. Solo che il mondo è pieno di stimoli, esperienze, conoscenze, letture, sguardi e l’identità non può che arricchirsi, dunque proseguire il viaggio per tutta la vita, anche nelle nostre terze e quarte età. Un tale processo viene represso quando i cambiamenti rischiano di mettere in pericolo il posto che abbiamo raggiunto all’interno della società che viviamo.
Ma il meccanismo di repressione dei desideri e dei più nobili sentimenti come l’amore o la curiosità umana, ha l’obiettivo di espellerli. Quei sogni o desideri, quei modi di essere sono ritenuti inammissibili e la repressione permette di congelare lo stato delle cose e della vita. Quel che ne consegue è che ciò che viene represso tornerà sempre e in forme ed energie diverse, incontrollate, anche distruttive.
Esattamente quel che accade nella Lucia di Lammermoor. La repressione dell’amore per il quieto vivere è l’inizio della tragedia. La storia umana attraversa archetipi che il mito e la letteratura hanno sempre utilizzato rendendogli il patrimonio di tutti. Per tanti anni ho rievocato quella notte d’estate dentro il palazzo Ducale di Martina Franca, c’era un vento gentile che scioglieva il monologo di Patrizia Ciofi che interpretava Lucia, non solo nelle nostre orecchie, ma anche nelle nostre anime. Ed è rimasto per tutta la vita. Non capii le parole, ma rilessi anni dopo il libretto e il romanzo di Walter Scott da cui Salvatore Cammarano e Gaetano Donizetti avevano tratto l’opera. Se avessi dovuto dire a qualcuno perché dopo anni, la sensazione di deliquio e nostalgia mi era rimasta dentro, non sarei riuscito a farlo. Ma percepivo che una sorta di spirito era rimasto dentro di me. Gli spiriti dei film, dei libri, delle opere che abbiamo incontrato nella nostra vita perdurano col tempo anche se dimentichiamo i nomi degli autori e dei personaggi delle opere che ci hanno segnato. Una parte di me si era connessa a quell’infernale strumento dell’identificazione letteraria, il transfer che spesso compiamo quando ci innamoriamo di un personaggio che sembra assomigliarci, un rischio elevatissimo di derealizzazione, che potrebbe portare a tragiche conseguenze, come accadde alla povera Madame Bovary che del proiettarsi dentro i protagonisti delle storie che leggeva aveva fatto la sua vita e ahimè, la sua fine.
Se l’amore si reprime porta alla follia distruttiva, se tante persone sono costrette in una società a reprimere il più nobile dei sentimenti, per quieto vivere, per burocrazia, per una legge scritta o non scritta, dunque una convenzione, per essere accettati in famiglia oppure a lavoro, allora quella società che reprime l’amore, finirà nel vortice della distruzione. Sì, mi sento Lucia di Lammermoor quando vedo i guardiani della convenzione che scrivono sulle loro tavolette del buon senso, perché non sei un maschio come tutti gli altri, perché non ti sposi, perché non ti fai una famiglia, un lavoro serio, una casa, perché non fissi le tue maledette radici, perché non sei come noi. Eppure le radici trattengono come dice lo scrittore libanese Amin Malouf, l’uomo non ha bisogno di essere trattenuto, ma ha bisogno di strade dove scoprire gli infiniti paesaggi naturali e umani, e poter dare un nome diverso a tutti gli alberi che incontra.