Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2021
Il mestiere del paggio
I «gamberi rossi» alla corte del reIl mestiere del paggio. Erano ragazzi dell’aristocrazia che servivano il sovrano (camminando all’indietro per non volgere le spalle al trono), ma venivano anche istruiti e formati per assumere da adulti notevoli responsabilità di comandoAndrea MerlottiIn divisa. Un paggio di Carlo Alberto di Savoia (dagherrotipo del 1847), Torino, Collezione Ginestra Immagini dalla fine d’una storia: questo sono i fragili dagherrotipi del 1847 che ci restituiscono i volti dei due giovani paggi della corte di Carlo Alberto. Il bianco e nero non permette di cogliere il rosso sgargiante e i bottoni dorati delle loro divise. “Gamberi rossi” venivano chiamati a Torino, perché, nell’uscire dalla sala del re, dovevano camminare all’indietro, per non volgere le spalle al sovrano. A Palazzo Reale essi si raccoglievano in una sala posta accanto a quella del trono, così da poter subito accorrere alla chiamata del monarca.
I paggi erano da secoli un elemento comune a tutte le corti d’Europa. Non erano ragazzi qualunque. I sovrani li sceglievano fra le famiglie dell’aristocrazia più antica e importante. Si facevano carico della loro educazione a corte, ricevendo, in cambio, la gratitudine (e l’obbedienza) della famiglia.
Si comprende, quindi, perché quello di paggio fosse un ruolo molto ambito. Un investimento utile ad entrambi le parti. Riuscire a far entrare un proprio figlio o nipote fra i paggi di corte era parte di quella continua contrattazione fra sovrani e aristocrazia che costituiva l’anima politica dell’Antico regime (lontano dall’essere quell’assolutismo senza dialogo, che è più presente nei libri di quanto non lo sia stato nella realtà, almeno sino al 1789). Le famiglie nobili sapevano bene che, nei casi più comuni, l’esser paggio avrebbe consentito ai loro rampolli d’iniziare una carriera che sarebbe durata tutta la vita. Se si fossero dimostrati all’altezza, da paggi sarebbero giunti ai più alti gradi a corte e nell’esercito. In altri casi – più rari, ma non impossibili – avrebbero potuto stabilire un rapporto d’amicizia col sovrano: bene immateriale, certo, ma prezioso strumento di potere nell’Europa dei principi.
Solitamente si diveniva paggio intorno ai 7 anni e lo si restava sino ai diciotto circa. Alcuni riuscivano a divenire primo paggio del re o della regina. Tale carica era ricoperta sino a 21 anni, dopo di che quasi si entrava direttamente nell’esercito.
Per accogliere i giovani tutte le dinastie avevano creato paggerie nelle loro residenze. Grandi architetture ospitavano non solo i paggi e i loro servitori, ma anche gli spazi per le lezioni. I paggi, infatti, non si limitavano a servire il sovrano, ma trascorrevano gran parte della giornata seguendo lezioni di storia, geografia, matematica, balletto, scherma, equitazione. Tutto quello che avrebbe loro permesso di essere perfetti servitori del re. Poi, un giorno, dopo aver imparato a obbedire, avrebbero iniziato a comandare.
Sbaglierebbe chi pensasse che le lezioni fossero solo una formalità. Si racconta che il giovane Galileo sfuggisse alle lezioni universitarie introducendosi di nascosto nella paggeria per assistere alle lezioni di matematica. Questa e il disegno erano necessarie a chi in futuro avrebbe dovuto occuparsi di fortificazioni, sia che dovesse costruirle, difenderle o conquistarle. Imparare a tirare bene di spada significava poter combattere meglio e aver più probabilità di sopravvivere. In quanto alle lezioni di danza, esse non erano necessarie solo per figurare bene a corte, ma per possedere quell’eleganza fisica che non poteva mancare a un vero aristocratico.
La vastità e la bellezza architettonica delle paggerie di Torino, Firenze e Napoli mostrano chiaramente quanto fosse importante il loro ruolo nella società delle corti europee.
Non stupisce, quindi, che entrarvi fosse un privilegio ambito. Nella sua autobiografia, Vittorio Alfieri – nobile sì, ma non abbastanza- per esser chiamato fra i paggi – ricordava l’invidia che aveva covato verso i coetanei, più fortunati di lui per il fatto di godere del «servizio di corte, delle caccie e delle cavalcate», esperienza «tanto più libera e divagata» della sua.
Al di là di tutto, i paggi restavano adolescenti che vedevano compiersi la propria formazione negli spazi delle corti o di quelle poche famiglie della più alta nobiltà che potevano permettersi una paggeria. Non stupisce, quindi, che, fra le figure di corte, i paggi abbiano colpito diversi letterati e musicisti. Sono decine quelli che compaiono in romanzi, poesie, opere liriche. Il più celebre è certo il Cherubino di Beaumarchais. Pochi ricordano che nell’opera dello scrittore francese sia questi sia Figaro erano componenti della piccola corte del conte d’Almaviva: Figaro valetto di camera e Cherubino suo primo paggio. Quando il conte decide di liberarsi del paggio, insospettito dal rapporto fra questi e sua moglie, lo avvia a fare l’ufficiale nel suo reggimento. Mozart e Da Ponte su questo seppero scrivere una delle pagine più belle de Le nozze di Figaro. E che il conte avesse visto giusto, Beaumarchais lo raccontò ne La me?re coupable, dove la contessa risulta avere avuto un figlio dal paggio. Il quale, a sua volta, s’era fatto uccidere in battaglia, per l’infelicità del suo amore impossibile. La scelta mozartiana di affidare Cherubino a una voce femminile fu ripresa nell’Ottocento da molti altri musicisti che misero in scena dei paggi, figure in formazione come cortigiani e, prima ancora, come uomini. Verdi, del resto, si arrabbiò molto quando un censore napoletano volle sostituire il paggio del Ballo in maschera con un ufficiale. Scriveva Verdi tramite il proprio avvocato: «Chi non rileva che cio? che riesca grazioso e piccante in un paggio diviene falso, odioso, insulso nella bocca di un guerriero?»
L’Ottocento fu, infine, il secolo in cui, con il progressivo venir meno dell’Antico regime, anche i paggi uscirono di scena. I Savoia li abolirono con la riforma della corte varata da Carlo Alberto nel 1849. In altre corti ciò era successo già da tempo, in altre accadde alla fine della Prima guerra mondiale. Ma i paggi non sono ancora scomparsi. Alla corte dei Windsor, non casualmente, esistono ancora quattro pages of honour. La regina Elisabetta se ne serve in alcune cerimonie di particolare importanza, perché reggano lo strascico del suo manto. Ben poco rispetto alle funzioni di un tempo. Ma si sbaglierebbe chi pensasse che la carica sia per questo meno ambita. L’elenco di chi è stato paggio negli ultimi decenni vede altisonanti nomi della nobiltà britannica. Attualmente il «first page of honour» è il quattordicenne lord Culloden, discendente diretto di Giorgio V. Il fratello di lady Diana, lord Charles Spencer, fu «fourth page» fra 1977 e 1979: pochi anni prima, quindi, del «royal wedding». Un’estrema testimonianza, a un quarto del XXI secolo, d’un ruolo che fu per secoli di grande rilievo nelle corti di tutta Europa.