Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2021
Un’umanità errante di lontani parenti
Per milioni di anni, milioni di antenati ci hanno mandato messaggi. Sono rimasti scritti nel DNA delle nostre cellule, cioè nel libretto di istruzioni che fa funzionare il nostro organismo (finché funziona, naturalmente). A saperlo leggere, e stiamo imparando a farlo, il DNA ci parla della nostra storia: delle migrazioni dei nostri antenati, di come è cambiato il loro aspetto, di chi hanno incontrato.
Un tema affascinante, e non c’è da meravigliarsi se di recente ha ispirato parecchi libri per il grande pubblico: alcuni buoni o buonissimi (ricordo soprattutto la Breve storia di chiunque sia mai vissuto di Adam Rutherford, Bollati Boringhieri), altri, fatalmente, poco originali.
Fra i primi c’è senz’altro L’Odissea dei geni, appena pubblicato da Neri Pozza. Per cominciare, l’autrice, Évelyne Heyer, sa scrivere. Fin dalle prime pagine, ambientate in un villaggio dei monti Altai, coinvolge il lettore in una narrazione appassionante. E poi Évelyne Heyer è un’antropologa vera: di quelle, per capirci, che vanno a raccogliere ossicini o campioni di saliva in giro per il mondo. Ha viaggiato tanto: in Africa, nelle Americhe e soprattutto in Asia centrale; ha convinto funzionari uzbechi poco amichevoli a rilasciarle permessi, ha guadato fiumi, si è imbarcata su aerei dall’aspetto inquietante. Mentre ci racconta tutto questo, ne approfitta per aggiornarci su cosa ci dice il DNA: sulle origini degli ebrei di Bukhara, sulle comunità francofone del Quebec…
Comincia dal principio, questo libro, dalle prime forme umane, ma poi approfondisce in particolare le fasi della nostra storia su cui lo studio del DNA ci ha chiarito le idee. La diffusione in Europa delle pratiche agricole, conseguenza delle migrazioni neolitiche dal vicino oriente; i fenomeni, per metà biologici per metà culturali, che ci hanno portato, ma non tutti, a digerire il latte anche dopo lo svezzamento; i processi di colonizzazione di nuovi continenti: le Americhe, la Polinesia; e quello che è successo a chi in Africa c’è rimasto, come i pigmei. Si apprendono senza sforzo tante cose e, se non bastasse, qualche cartina soccorre chi si trovasse in difficoltà a localizzare il Kalahari o la Repubblica di Tuva. Non mancano capitoletti sulle vicende di qualche celebrità, come i vichinghi o Gengis Khan, che immagino si stupirebbero di vedere quante tracce di sé hanno lasciato in giro, senza accorgersene.
Conoscere queste vicende, lontane o lontanissime, non è solo interessante; ci permette anche di affrontare da una prospettiva meno angusta le questioni del presente. Nell’ultimo capitolo, Évelyne Heyer mette le carte in tavola: «Fin dall’alba dell’umanità, il popolamento della terra è stato una storia di migrazioni, e questa tendenza prosegue ancora oggi».
Certo, studiare gli spostamenti dell’umanità preistorica non genera soluzioni immediate ai problemi delle società attuali, ma è utile ragionare su come fenomeni che ci sembrano legati alla modernità abbiano in realtà una storia lunghissima. Come gestire una società che invecchia, e in cui i progressi della medicina – e in futuro, chissà, anche della genetica – promettono di prolungare ancora la durata media della vita? Cosa fare di un pianeta in cui grandi disuguaglianze mettono in moto colossali movimenti migratori? Nessun libro può rispondere da solo a interrogativi così vasti, ma in questo ci sono suggerimenti utili: essere curiosi; viaggiare; sforzarsi di comunicare con persone di culture diverse; sperimentare il ruolo del migrante, almeno per un po’.
Se si può avanzare una critica a questo testo vivace e svelto, è che ogni tanto dà l’impressione che abbiamo capito tutto: del nostro passato, e degli antenati che hanno concorso a farci come siamo. Purtroppo o per fortuna, non è così. L’uomo di Neandertal esercita uno speciale fascino sulla nostra immaginazione, e non c’è dubbio che con i neandertaliani ci siamo incontrati e riprodotti. Però non è ancora chiaro quali tracce abbiano lasciato questi incontri nel DNA di noi umani moderni, e la discussione in corso mi sembra più interessante di certe sbrigative conclusioni. Il fatto è che la scienza non è e non può essere dispensatrice di semplici certezze. Funziona in un altro modo, cioè eliminando un po’ alla volta le ipotesi che si rivelano sbagliate. È normale che si confrontino diversi punti di vista scientifici; non è un segno di debolezza, ma il modo logico di progredire della ricerca. Riuscire a spiegare che la scienza è per sua natura inquieta e pluralista può costare qualche pagina in più, ma è utile: per esempio a far capire che, nonostante tanti dubbi e incertezze, i vaccini sono preziosi.
C’è poco da fare. Come ogni seria opera di comunicazione scientifica, anche questo libro deve fare i conti con un problema ricorrente: certe idee della scienza vanno contro la nostra intuizione. Nel Seicento non è stato facile convincere la gente che la Terra ruota intorno al Sole e non viceversa. Oggi è un po’ lo stesso per il concetto, sbagliato e inutile, di razza umana, a cui Évelyne Heyer dedica un capitolo dal titolo eloquente: «Tutti parenti». Una sfida importante, oggi, è quella di rendere comprensibili queste cose complicate, senza però rinunciare a presentarle nella loro complessità. Chi si occupa di evoluzione – dell’universo, della Terra, o dei viventi – ha un vantaggio: studia fenomeni che, per la loro stessa natura, si prestano a essere raccontati sotto forma di storie. Évelyne Heyer ha saputo sfruttare questa favorevole condizione di partenza, costruendo una storia che si legge con piacere dal principio alla fine.