Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2021
E ora, senza Angela Merkel?
Diranno gli storici di domani se e quanto la fine del lungo cancellierato Merkel costituisca un punto di svolta nella storia della Germania e l’Europa. Oggi possiamo al massimo tentare un bilancio di questo lungo cancellierato, con un’unica certezza circa il futuro: la storia tedesca continuerà a pesare fortemente sulla nostra. Ma quale bilancio? «The Economist» ha titolato in copertina: «Il caos che Merkel si lascia alle spalle», mentre il «Financial Times» celebra la Germania come «il Paese più sano dell’Occidente». Opinioni divergenti ma forse tra loro non incompatibili. Due tempestivi volumi freschi di stampa, tra loro assai diversi, aiutano a mettere l’“era Merkel” in una prospettiva di lungo andare, addolcendo in parte l’emotività che ogni riferimento all’ingombrante Paese d’Oltralpe suscita in Italia.
“Venuta dal freddo”, direbbe John Le Carré, Merkel ha custodito con cura la propria privacy. Poco si sa dei suoi primi 35 anni nella Ddr e l’agile, informata biografia di Sergio e Beda Romano può solo dedicarvi un breve capitolo. Gli altri proiettano utilmente la vita della cancelliera sullo sfondo delle vicende, soprattutto internazionali, dei suoi sedici anni alla guida del governo tedesco. Ne emerge una personalità pragmatica, priva di una forte ideologia, radicata però, aggiungerei, nella cultura della pietas cristiana respirata nella famiglia guidata dal padre pastore evangelico, fino a sfidare l’impopolarità accogliendo in un solo anno un milione di immigrati, molti dei quali daranno alle figlie il suo nome. Gli autori sottolineano l’iniziale tiepidezza della cancelliera verso il progetto europeo, sposato poi a poco a poco con crescente convinzione, più pragmatica che ideale. Eppure, sottolineano, «lascerà in eredità un’Europa assai più integrata di quanto forse lei stessa non credesse necessario». Negli ultimi anni ha continuato a ripetere a noi europei che è tempo di prendere in mano il nostro destino. La sua innegabile popolarità in patria deriva, secondo i Romano, da uno stile di vita morigerato, da una gestione della cosa pubblica rassicurante, prevedibile, affidabile. Forse anche dal non avere dato la sensazione di avere un proprio disegno, inevitabilmente divisivo. In fondo, per molti aspetti, i cittadini tedeschi non hanno mai vissuto meglio che negli anni di Angela Merkel. Forse il disegno celato mirava proprio a questo solido, magari non esaltante, traguardo.
Era il suo un disegno proiettabile nel prevedibile futuro? Gianni Nardozzi, un economista che non si accontenta di spiegazioni solo economiche, scava sotto la superficie del benessere e della relativa pace sociale dei quali sembra godere oggi la Germania, più di molti Paesi europei e occidentali. Lo fa partendo dall’antica questione dell’identità tedesca, oscillante tra i complessi di superiorità e inferiorità. Un bel capitolo di sintesi mette a fuoco l’ambigua natura dell’ordoliberalismo, che prende corpo con i lavori dell’economista Wilhelm Röpke (1899-1961) e del sociologo Alexander Rüstow (1885-1963), entrambi costretti all’esilio durante il nazismo e divenuti poi padri intellettuali dell’“economia sociale di mercato”. Il fallimento democratico della Repubblica di Weimar indusse gli ordoliberali a ideare una delle “terze vie” tra liberismo smithiano e autoritarismo statalista che fiorirono negli anni Trenta, approdata nel dopoguerra all’economia sociale di mercato, che si rivelò la “terza via” più duratura e di maggior successo. Insito nell’ordoliberalismo è l’approdo della “libertà di” alla “libertà da”, attraverso una visione programmatica della società che realizzi la persona con l’attenuazione della conflittualità sociale che aveva minato alla radice la democrazia di Weimar. Si tratta, in questa visione, di creare una società competitiva sia all’interno sia all’esterno, attraverso il libero commercio, facendo valere una superiorità non solo economica ma anche politica e sociale, intrinseca alla identità tedesca.
Nel dopoguerra il “miracolo” dei Paesi che «persero la guerra e vinsero la pace» (Germania, Giappone, Italia) concentrò il popolo tedesco sulla ricerca interna del benessere economico. L’ordoliberalismo fu addolcito in un’“economia sociale di mercato” dall’espansione del welfare state, cemento di pace sociale e strumento di politica economica. Nardozzi narra molto efficacemente l’evoluzione sociale, politica ed economica della Repubblica Federale sino all’unificazione con l’Est, cesura della storia politica tedesca ed europea. L’europeismo federalista di Kohl, frustrato da Francia e Regno Unito, si perse per sempre. Schroeder si occupò con successo di riformare un’economia stremata dall’unificazione, nel quadro di un’altra “terza via”, quella di Clinton e Blair, consentendo a Merkel di ereditare una nuova fase di sviluppo sostenuto.
Il giudizio economico e politico di Nardozzi sulla Germania dell’ultimo ventennio è severo: il mai sopito neo mercantilismo e l’ossessione, tutta moraleggiante, per una non mitigabile ortodossia finanziaria, che raggiunse il culmine nella gestione della crisi greca, hanno tenuto investimenti e consumi interni al di sotto del potenziale di quella che resta comunque una straordinaria macchina produttiva. Si potrebbe obiettare che il consenso democratico di cui gode questa politica sarebbe sufficiente a giustificarla, se non fosse che essa non può che impattare sul resto d’Europa, come osservò Keynes fin dal 1919. Alla Germania, come agli Stati Uniti degli anni Trenta e di Bretton Woods, non è consentita una politica economica autonoma. Non lo è per la forza economica e politica che ne fa l’indispensabile leader dell’Unione Europea. Sono la consapevolezza della leadership consegnatale dalla storia, dalla geografia e dall’economia e la volontà di farsene carico che in parte latitano nella Germania odierna, che sembra più impegnata a modellare l’Europa a propria immagine che a valorizzarne le diversità. Ma è, in fondo, il lato negativo di una democrazia di successo della quale i cittadini in maggioranza apprezzano i risultati, soprattutto come àncora di stabilità in un mondo segnato dall’incertezza. La convinzione con la quale Merkel ha promosso il grande prestito europeo per fronteggiare la pandemia è forse un segno che le cose possono cambiare, che la Germania si stia avviando, con i propri pachidermici ritmi, ad assumere gli oneri della leadership. Le elezioni di settembre e l’annunciato cambiamento alla guida della Bundesbank sembrano mandare segnali in questa direzione. Vale però ripetere che solo gli storici di domani diranno quanta radice abbiano queste promettenti ma ancora tenere pianticelle.