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 2021  novembre 14 Domenica calendario

un ricordo di Federico Zeri

Nella sua ultima conferenza a Milano, pochi giorni prima di morire, aveva detto: «Secondo me l’opera d’arte figurativa, il monumento, l’oggetto di arte minore, nella quale comprendo anche il mobilio, il vestito (…) sono spie utili per capire non solo chi le ha prodotte ma anche noi stessi che discendiamo da quelle società». (La redazione di questa conferenza, la sua ultima voce, sta nel bel libro-raccolta di testi orali di Zeri, Federico Zeri. La memoria e lo sguardo, a cura di Marco Bona Castellotti, edito da Longanesi nel 2001).
Zeri sapeva guardare un’opera d’arte fin nei minimi dettagli, formali, visivi e materici, e studiarne ogni possibile contestualizzazione storica e sociale, religiosa e antropologica, letteraria e perfino botanica. Il suo metodo di conoscitore era più vicino a Warburg che a Morelli. «Scrittore d’arte» si era voluto definire nel proprio testamento. Ma non era solo questo. Ogni aspetto delle attività creative umane lo interessava, fino alle ricette di cucina e agli oggetti kitsch; ed era grande conoscitore della storia del cinema che lui aveva indagato negli stessi protagonisti durante i suoi lunghi soggiorni negli Usa. Tutti questi saperi in lui formavano un tutto unico. Come ha scritto Anna Ottani Cavina nella presentazione al catalogo della mostra da lei curata a Bologna nel 2009 (Federico Zeri, dietro l’immagine. Opere d’Arte e fotografia, Umberto Allemandi) «noi continuiamo a vivere come uno scacco la sua leggendaria capacità di “riconoscere”, di creare un raccordo risolutivo e fulmineo tra l’opera originale che gli stava davanti e la serie senza fine di immagini scansionate nell’ippocampo del suo cervello».
Zeri è stato un grande, inesausto difensore del patrimonio culturale dell’Italia. Sul settimanale «L’Europeo» e poi soprattutto su «La Stampa» negli anni Settanta, Ottanta e Novanta scrisse articoli feroci e brucianti contro l’assalto ai monumenti e ai paesaggi. Per inoculare le ragioni di queste sue battaglie nella mentalità comune aveva perfino sfidato la televisione parodiandone i personaggi e gli stili mediante le gag più assurde di una trash-cultura da lui stesso inventate. Rivedendo sul sito della Fondazione Zeri una parte delle sue moltissime trasmissioni (tutte archiviate nella Biblioteca Zeri, nelle Teche RAI e su RAICultura, e presentate nella breve guida scritta da Nino Criscenti, Federico Zeri in televisione, 1974-1997)) sono stata ancora una volta stregata dalla forza della sua presenza e ammaliata dai suoi argomenti. Le centinaia di apparizioni televisive restano avvincenti e meriterebbero una indagine antropologica approfondita.
Zeri non perdonava a nessuno, nemmeno agli amici più cari, il tradimento della protezione del patrimonio e la mercificazione dei beni culturali: lo dichiarava in tutti i modi con una forza e una precisione inarrivabili. Questo suo impegno civile così duraturo e coerente credo gli derivasse dalla cultura della tutela che pervadeva l’Italia dalla legge Bottai del 1939 al dopoguerra degli anni Cinquanta quando lui stesso aveva lavorato nelle Soprintendenze romane e realizzato l’indimenticabile e tutt’ora presente allestimento della quadreria di Palazzo Spada. O forse dalla lettura del libro di Guido Piovene, Viaggio in Italia (Arnoldo Mondadori) che tra il 1957 e il 1958 conta ben 7 edizioni e che era stato preceduto da fortunati reportage radiofonici della RAI dal 1953 al 1956. La descrizione di un’Italia per la quale Zeri provò sempre nostalgia. Forse anche dal clima creato dalla famosa mostra di Italia Nostra nel 1967 a Milano e Roma, Italia da salvare, curata da Renato Bazzoni.
Per questo credo che il suo libro più immortale e decisivo per la tutela del paesaggio italiano sia quel saggio del 1976, che (come prima di lui Benedetto Croce) identificava il paesaggio italiano con il volto della patria comune: La percezione visiva dell’Italia e degli Italiani(ripubblicato come libro autonomo da Einaudi nel 1989). A questo insegnamento ho guardato costantemente e soprattutto nei tre anni in cui sono stata presidente nazionale di Italia Nostra.
La prova per me più alta dell’impegno civile di Zeri per la tutela del patrimonio italiano sta nel viaggio voluto e guidato da Nino Criscenti per la RAI nell’Umbria devastata dal terremoto nell’autunno del 1997: Non solo Assisi. L’annuncio del terremoto mi arrivò proprio da lui al telefono, all’alba del 26 settembre. Aveva la voce rotta dal dolore e dall’ansia per i disastri annunciati sui monumenti; e non era ancora crollata la volta di Assisi. Poco dopo partì con Criscenti per l’Umbria. Lo guardavo in TV, aggirarsi tra le macerie delle chiese, sofferente, zoppicante e indomabile. Questa sua faticosa impresa impregnata di denunce sullo stato del patrimonio umbro mi convinse a “gemellare” il Poldi Pezzoli con il Museo Civico di Camerino e ad andare volontaria alla sua ricostruzione. Anche in quei 15 giorni con Maria Luisa Polichetti, soprintendente-commissaria nelle Marche, le telefonate di Federico mi cercavano all’alba di ogni giornata. Mi dettava al telefono nomi di artisti, chiese, soggetti. Sapeva dove erano i quadri che cercavamo, per salvarli dalle rovine e riportarli nel museo.
Sarebbe vissuto appena un anno ancora.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Le sue telefonate al mattino prestissimo erano celebri e attese dagli amici; ma non erano scherzo, maldicenza o tormento. Era un suo modo di governare la tutela del patrimonio e la  connoisseurship artistica e di sentirsi meno solo nella lontananza di Mentana. Erano una vera rete di ordini di servizio, di ricordi e raccomandazioni storico-critiche. L’ultima l’ho ricevuta mezz’ora prima che morisse ed era per ritrovare uno degli arredi più importanti di Palazzo Reale a Milano. Insieme avevamo accettato (lui come consulente speciale, io come direttore centrale della cultura) dal Comune di Milano (sindaco Gabriele Albertini, assessore Salvatore Carrubba) l’incarico di ricostruire le sale storiche e gli spazi per mostre del Palazzo e riordinare l’immenso Castello Sforzesco. 
Zeri conosceva bene il Museo Poldi Pezzoli. Aveva spesso lodato la formula gestionale della casa-museo-fondazione (privata ma pubblica negli scopi dello stesso fondatore) e le attività culturali. Era stato Mauro Natale a legare il museo a lui: prima con il lavoro sul catalogo dei dipinti edito da Electa per Banca Commerciale nel 1981. Poi, con la proposta di una mostra sulla sua collezione di sculture nel 1986, realizzata nel 1989: Il Conoscitore d’Arte. Sculture dal XV al XIX secolo della collezione di Federico Zeri (a cura di Andrea Bacchi, catalogo della mostra Mondadori Electa).
Quando andai con il trasportatore a Mentana per prelevare le più di 40 fragili sculture ero molto ansiosa: imballare e trasportare marmi è sempre stata una delle imprese più difficili del nostro mestiere di conservatori d’arte. Ero anche preoccupata dello stato d’animo di Federico di fronte allo svuotamento della sua casa. Mi presentai con un enorme mazzo di rose rosse. Anche lui era touché: «mi hai preso per una cocotte». Ettore Sottsass era emozionato quando venne con me a Mentana per presentare a Zeri la propria proposta di allestimento della mostra: una stanza-labirinto nella grande sala dell’affresco al piano terreno del Poldi. Era un’opera d’arte per contenere opere d’arte, una installazione site specific, una scultura per le sculture, un allestimento d’avanguardia che piacque immediatamente e moltissimo a Zeri.
Seguirono altre mostre da lui ispirate: al Poldi Pezzoli quella sui falsi (un tema che proprio lui aveva portato all’attenzione della critica d’arte con enorme acume e successo) e a Palazzo Reale quella sulle «pietre dipinte» della collezione di Vittorio Giulini, la pittura rinascimentale e barocca su supporto di pietre pregiate, dalla lavagna, all’onice al lapislazzuli. 
Allora Zeri veniva continuamene a Milano, ospite nella casa di Vera Giulini; la sera ci ritrovavamo con lui e Marco Bona Castellotti per appassionanti dialoghi su ogni possibile piega della storia dell’arte, dell’antropologia, della storia delle religioni e delle mentalità. Per lui la storia era un tutto unico di cui la storia dell’arte faceva parte. Tutte le storie che indagava confluivano in quella che lui stesso chiamava la storia dell’umanità.
Credo che nei suoi studi, nella sua attività di connoisseur, nei suoi viaggi e perfino nella sua vita personale ci sia sempre stato un metodo assai coerente. Imparai a conoscere tale metodo quand’ero all’università e il mio professore, Giulio Carlo Argan, ci raccomandava di leggere il primo celebre libro di Zeri, Pittura e ControriformaL  arte senza tempo di Scipione da Gaeta (Einaudi, 1957). Molto più tardi avrei scoperto che ci univa anche l’argomento delle nostre tesi di laurea: la sua su Jacopino del Conte, la mia sui manieristi dell’Oratorio del Gonfalone.
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Nella sua ultima conferenza a Milano, pochi giorni prima di morire, aveva detto: «Secondo me l’opera d’arte figurativa, il monumento, l’oggetto di arte minore, nella quale comprendo anche il mobilio, il vestito (…) sono spie utili per capire non solo chi le ha prodotte ma anche noi stessi che discendiamo da quelle società». (La redazione di questa conferenza, la sua ultima voce, sta nel bel libro-raccolta di testi orali di Zeri, Federico Zeri. La memoria e lo sguardo, a cura di Marco Bona Castellotti, edito da Longanesi nel 2001).
Zeri sapeva guardare un’opera d’arte fin nei minimi dettagli, formali, visivi e materici, e studiarne ogni possibile contestualizzazione storica e sociale, religiosa e antropologica, letteraria e perfino botanica. Il suo metodo di conoscitore era più vicino a Warburg che a Morelli. «Scrittore d’arte» si era voluto definire nel proprio testamento. Ma non era solo questo. Ogni aspetto delle attività creative umane lo interessava, fino alle ricette di cucina e agli oggetti kitsch; ed era grande conoscitore della storia del cinema che lui aveva indagato negli stessi protagonisti durante i suoi lunghi soggiorni negli Usa. Tutti questi saperi in lui formavano un tutto unico. Come ha scritto Anna Ottani Cavina nella presentazione al catalogo della mostra da lei curata a Bologna nel 2009 (Federico Zeri, dietro l’immagine. Opere d’Arte e fotografia, Umberto Allemandi) «noi continuiamo a vivere come uno scacco la sua leggendaria capacità di “riconoscere”, di creare un raccordo risolutivo e fulmineo tra l’opera originale che gli stava davanti e la serie senza fine di immagini scansionate nell’ippocampo del suo cervello».
Zeri è stato un grande, inesausto difensore del patrimonio culturale dell’Italia. Sul settimanale «L’Europeo» e poi soprattutto su «La Stampa» negli anni Settanta, Ottanta e Novanta scrisse articoli feroci e brucianti contro l’assalto ai monumenti e ai paesaggi. Per inoculare le ragioni di queste sue battaglie nella mentalità comune aveva perfino sfidato la televisione parodiandone i personaggi e gli stili mediante le gag più assurde di una trash-cultura da lui stesso inventate. Rivedendo sul sito della Fondazione Zeri una parte delle sue moltissime trasmissioni (tutte archiviate nella Biblioteca Zeri, nelle Teche RAI e su RAICultura, e presentate nella breve guida scritta da Nino Criscenti, Federico Zeri in televisione, 1974-1997)) sono stata ancora una volta stregata dalla forza della sua presenza e ammaliata dai suoi argomenti. Le centinaia di apparizioni televisive restano avvincenti e meriterebbero una indagine antropologica approfondita.
Zeri non perdonava a nessuno, nemmeno agli amici più cari, il tradimento della protezione del patrimonio e la mercificazione dei beni culturali: lo dichiarava in tutti i modi con una forza e una precisione inarrivabili. Questo suo impegno civile così duraturo e coerente credo gli derivasse dalla cultura della tutela che pervadeva l’Italia dalla legge Bottai del 1939 al dopoguerra degli anni Cinquanta quando lui stesso aveva lavorato nelle Soprintendenze romane e realizzato l’indimenticabile e tutt’ora presente allestimento della quadreria di Palazzo Spada. O forse dalla lettura del libro di Guido Piovene, Viaggio in Italia (Arnoldo Mondadori) che tra il 1957 e il 1958 conta ben 7 edizioni e che era stato preceduto da fortunati reportage radiofonici della RAI dal 1953 al 1956. La descrizione di un’Italia per la quale Zeri provò sempre nostalgia. Forse anche dal clima creato dalla famosa mostra di Italia Nostra nel 1967 a Milano e Roma, Italia da salvare, curata da Renato Bazzoni.
Per questo credo che il suo libro più immortale e decisivo per la tutela del paesaggio italiano sia quel saggio del 1976, che (come prima di lui Benedetto Croce) identificava il paesaggio italiano con il volto della patria comune: La percezione visiva dell’Italia e degli Italiani(ripubblicato come libro autonomo da Einaudi nel 1989). A questo insegnamento ho guardato costantemente e soprattutto nei tre anni in cui sono stata presidente nazionale di Italia Nostra.
La prova per me più alta dell’impegno civile di Zeri per la tutela del patrimonio italiano sta nel viaggio voluto e guidato da Nino Criscenti per la RAI nell’Umbria devastata dal terremoto nell’autunno del 1997: Non solo Assisi. L’annuncio del terremoto mi arrivò proprio da lui al telefono, all’alba del 26 settembre. Aveva la voce rotta dal dolore e dall’ansia per i disastri annunciati sui monumenti; e non era ancora crollata la volta di Assisi. Poco dopo partì con Criscenti per l’Umbria. Lo guardavo in TV, aggirarsi tra le macerie delle chiese, sofferente, zoppicante e indomabile. Questa sua faticosa impresa impregnata di denunce sullo stato del patrimonio umbro mi convinse a “gemellare” il Poldi Pezzoli con il Museo Civico di Camerino e ad andare volontaria alla sua ricostruzione. Anche in quei 15 giorni con Maria Luisa Polichetti, soprintendente-commissaria nelle Marche, le telefonate di Federico mi cercavano all’alba di ogni giornata. Mi dettava al telefono nomi di artisti, chiese, soggetti. Sapeva dove erano i quadri che cercavamo, per salvarli dalle rovine e riportarli nel museo.
Sarebbe vissuto appena un anno ancora.