il Giornale, 14 novembre 2021
Ritratto di Giorgio Manganelli
Per Giorgio Manganelli, che aveva in testa una ricchissima collezione, anzi una specie di Louvre di problemi mentali (i cui frutti, come capolavori inviati in tournée all’estero, popolano tutti i suoi libri), non sarebbe stato facile dire, se avesse voluto, se avesse potuto dirlo, quale fosse il peggiore. C’era l’infanzia tormentata da una madre-Menade che lasciava biglietti per casa rivolti a Dio, implorandolo di non farle bruciare l’arrosto; c’era (come per un altro scrittore fagocitato dal Male, Dostoevskij) la perenne sensazione della gelida mano della morte sulla faccia, da quando fu l’intervento di un gerarca fascista, padre di una sua studentessa, a stoppare l’esecuzione di lui, partigiano da fucilare per rappresaglia; c’era la Follia come unica, dittatoriale Musa, da Hilarotragoedia in poi...
Invece, per chi a Giorgio Manganelli voleva bene è facile dire quale fosse il suo problema più grave: la paura dei suoi stessi sentimenti. Alla figlia Lietta, ogni tanto, ma molto tanto, concedeva una stretta di mano. Lei ricorda una sua frase allo stesso tempo dolcissima e agghiacciante: «Eh, sai cosa ti dico? Che ti voglio bene, nonostante tu sia mia figlia». Fra l’altro essere così, rinchiuso in un’armatura come un pupo comandato dai fili della psicosi, dava di lui agli altri un’immagine falsa, quasi da posa, da recita. Tuttavia, in alcune occasioni l’impulso a darsi, a liberarsi di un costume che all’atto pratico era una camicia di forza, riusciva a tracimare, a superare gli argini della sua abissale solitudine. Lietta, custode e garante del lascito paterno, ricorda che addirittura, con uno zio burlone, sapeva organizzare scherzi di geniale cinismo, «robe proprio alla Amici miei».
E se fosse il caso di cercare, di riscattare un altro Manganelli, un Manganelli a colori, grattando via lo strato di vernice nera che lo opprime? Possiamo incominciare a farlo, prendendo la rincorsa che ci porterà, fra un anno esatto, al centenario della nascita. Infatti domani «il Manga», morto a Roma il 28 maggio 1990, avrebbe compiuto 99 anni. Pur non essendo ufficialmente... mai nato, visto che i documenti lo dicono venuto alla luce (e alle sue tenebre) il 15 novembre 1922 a Milano, in via Boscovich al civico 4. Peccato che il civico 4 di via Boscovich non sia mai esistito. Un altro effetto collaterale, e burocratico, delle bombe della Seconda guerra mondiale?
E sempre domani torna nelle librerie, con un nuovo titolo, Catatonia notturna, uscito nel 2015 da Nino Aragno. Ora si chiama Notte tenebricosa (Graphe.it edizioni, pagg. 162, euro 15,90, prefazione di Alessandro Zaccuri). «Tenebricosa» è aggettivo da entomologi, perché Capnodis tenebricosa è il nome di un coleottero, oppure da ornitologi, perché Tyto tenebricosa è il nome di un barbagianni. Andate a guardare le foto di questo inquietante uccello e ditemi se non è il più manganelliano degli animali. Comunque Notte tenebricosa, oltre a essere una sorta di cosmologia della notte è anche una visita psichiatrica di questa altera, monotona e depressa signora, vedova del sole. «Giacché, se la notte è nevrotica, noi siamo forse i suoi sogni sinistri, i suoi incubi, le sue oniriche premonizioni, e la notte deve interpretarci, e man mano che noi cresciamo in senso e simbolo, noi ci disfacciamo, come accade degli incubi analizzati, e forse ogni morto non è che una seduta di cosmica analisi». Autoironia dello psicanalizzato? Non esageriamo, tuttavia...
Tuttavia, dopo esserci gustati (gustati anche in senso culinario, poiché la prima ipotesi sulla notte formulata è quella di una immensa pentola con noi dentro, a sobbollire o a friggere) Notte tenebricosa, possiamo gustare la lunga intervista di Emiliano Tognetti a Lietta. In cui apprezziamo il buon cuore del suo Manga papà quando un Gadda terrorizzato al pensiero che Hilarotragoedia fosse una presa per il culo di La cognizione del dolore («Per carità, professore, non mi rovini», piagnucolava), si sente rispondere, in modo vagamente rassicurante: «se uno avesse avuto una madre matta, non sarebbe stata colpa dello scrittore». E non fa ridere pensare a Giorgio al seguito del presidente della Repubblica Giovanni Leone (o viceversa) in Africa, perché i galoppini del Quirinale non avevano trovato in tutta Roma un’altra persona in grado di tradurre dallo swahili? E non è una scena da commedia all’italiana la bicchierata a base di birra sui Navigli con al seguito Lietta quattrenne, anche lei a trangugiare una bella bionda media? E quando ruppe con Calvino? Cena a casa di Italo. I Malerba tardano, ma Giorgio, che cenava sempre alle 19,45 in punto, cascasse il mondo, non transige. Quando finisce, arrivano i ritardatari. Lui si alza e se ne va: «Cafoni».