la Repubblica, 14 novembre 2021
Rimbaud raccontato dal suo traduttore italiano
L’incontro con la Saison en enfer fu per me un abbaglio e una vertigine. L’abbaglio fu quello che si tradusse nell’illusione, passeggera, di poter diventare un poeta. La vertigine la provai invece venendo a contatto per la prima volta con una materia tanto incandescente e liberatoria. Una successione di immagini e di asserzioni atroci e violente, in cui si confondevano estasi e malessere, speranze di salvezza, visioni cristologiche e ricerca della dannazione, della sovversione, del disordine. Un’irrequietezza, una tensione che dalla pagina si era prolungata all’esistenza stessa, nel segno dell’individualismo e della rivolta. Dalla lettura di quella sua fittizia autobiografia, stravolta sino all’allucinazione, e di tutto il resto della sua opera, passai ben presto ai libri che cercavano di ricostruirne la vita. Quella vita, come ebbe a dire Verlaine, «tutta luce tutta forza». Il primo che lessi fu il testo, celebrativo e artefatto, che, sei anni dopo la morte, gli aveva consacrato Paterne Berrichon, il cosiddetto «cognato postumo», che con quel libro dava il via a una parabola per cui Arthur diventerà nel tempo, progressivamente, «poeta, profeta, visionario, dio», insomma «il verbo fatto carne». Poi fu la volta della biografia scritta da Enid Starkie considerata, almeno in quegli anni, quella di riferimento. Sebbene non esente da imprecisioni e da inesattezze, introduceva alcuni argomenti nuovi e importanti su una questione dibattuta a lungo. Se la Saison cioè fosse successiva o precedente alle Illuminations, a sostegno deciso, e forse risolutivo, della seconda ipotesi. Qualche tempo dopo mi capitò tra le mani un volumetto dal titolo: Arthur Rimbaud. Pubblicato agli inizi del Novecento era, allo stesso tempo, saggio, biografia e antologia. Il suo autore, Ardengo Soffici, pittore, scrittore, poeta futurista, teorico dell’arte, oltre che uno dei primi italiani a venire a contatto con le avanguardie parigine di inizio Novecento, era stato il primo ad aver fatto conoscere Rimbaud in Italia. Nel libro venivano citati ampi stralci della Saison. Soffici osservava che il poeta l’aveva lasciata «dietro di sé, come la serpe lascia tra gli sterpi e i sassi di una piaggia arrostita dal solleone la sua buccia gialla nera brillante e velenosa», con un’allusione, oltre che al tema della tentazione e della caduta, a quella irresistibile attrazione di Rimbaud, presente anche nella Saison, per il sole, attorno a cui molti poi, nel tempo, si sono esercitati. L’astro solare eletto da Arthur quale divinità di una personale religione pagana secondo alcuni, fonte e principio di un’inesauribile, cosmica, energia rigenerativa a detta di altri, simbolo dell’autorità genitoriale per quanti l’hanno voluta giustificare con gli strumenti della psicanalisi. Quel suo libro Soffici lo aveva dedicato, come si legge nell’epigrafe: «Alla ignota signora milanese che soccorse e forse amò Rimbaud, affamato vagabondo per l’Italia», riferendosi alla misteriosa donna, alla «vedova molto civile», come la chiamò Verlaine, che ospitò Rimbaud per qualche settimana nel suo appartamento di «piazza Duomo 39», e alla quale Arthur, riconoscente, volle fare dono di una copia della Saison en enfer, scrivendo a Delahaye che gliene inviasse una a quello scopo. Un gesto che può essere considerato l’ultimo segno di considerazione, di riguardo per la propria opera, l’ultimo sussulto di interesse, di rispetto per la letteratura, prima che arrivasse a provare solamente fastidio per i libri («servono solo, allineati sugli scaffali, a nascondere le lebbrosità dei vecchi muri»), prima di chiudersi in quello che viene celebrato come il suo «silenzio», trasformarsi, come ha scritto Mallarmé, in «qualcuno che era stato lui, ma non lo era più in nessun modo». Verso la fine del 2011, con l’intenzione di consultare qualche testo, di raccogliere qualche impressione, che mi potesse aiutare a ricostruire la storia, enigmatica ed evanescente, dell’incontro tra Rimbaud e la vedova milanese, feci un viaggio che mi portò prima a Parigi e poi a Charleville. Sull’elegante Place Ducale cadeva una pioggia sottile, una pioggia lenta e tiepida. Un vecchio manifesto annunciava un concerto che Patti Smith aveva tenuto, poche settimane prima, al Théâtre Municipal. La venerazione di Patti Smith per Rimbaud è arcinota: dal giorno in cui a sedici anni si imbatté su una bancarella che vendeva libri, di fronte alla stazione degli autobus di Philadelphia, «nel suo sguardo borioso». Fu per lui, ha raccontato, che si mise «a scrivere e a sognare». Fu grazie a lui che riuscì a liberarsi dagli orrori della vita in fabbrica. L’accolse come «un arcangelo, un compatriota, un parente, un amore segreto». Io ricordo con quale sorpresa e con che emozione scoprii, verso la fine degli anni Settanta, all’interno di Easter, il suo terzo album credo, la riproduzione della celeberrima fotografia, datata Pasqua 1866, in cui Rimbaud è ritratto, quattordicenne, il giorno della sua prima comunione, il nastro bianco al braccio e il messale in mano, serio e composto.
Costeggiando a piedi per un piccolo tratto la Mosa, il cui corso a Charleville fa un’ampia curva, arrivai sul quai Rimbaud, un tempo quai de la Madeleine. In un edificio in pietra e mattoni del Diciassettesimo secolo, a due passi dall’appartamento in cui Arthur visse per qualche tempo con la famiglia, ha sede il Musée Bibliothèque a lui consacrato. Al primo piano, dentro grandi teche di vetro, erano esposti alcuni suoi cimeli. Al piano successivo due piccole vetrine custodivano una il manoscritto autografo di Voyelles, l’altra un’edizione originale dellaSaison. Sulle pareti erano appese le riproduzioni di alcuni suoi ritratti. Opere di Miró, Léger, Picasso, Cocteau ed altri. Magnifico mi sembrò quello eseguito da Alberto Giacometti, fatto di linee leggere e tratti indefiniti che davano l’idea di qualcosa di irreale, di inafferrabile.Terminata la visita al museo lasciai Charleville. Seguendo, sotto nuvole color perla, la Route Rimbaud Verlaine, che si snoda per duecento chilometri sino a sconfinare in Belgio, feci sosta a Roche. Un cartello a fianco di un lavatoio informava i turisti che «la frequentazione di questi luoghi avrebbe ispirato Rimbaud» (com’è risaputo, Arthur considerava Roche un «triste buco», un luogo tanto squallido da fargli rimpiangere persino la «supremamente idiota» Charleville). Scesi dall’auto, e a piedi raggiunsi un piccolo spiazzo d’erba, poco più avanti. Due lastre di pietra grigia, macchiate in alto dal muschio, si innalzavano verticalmente dal terreno, una di fianco all’altra. Sopra una di esse c’era scritto, a lettere di ferro, in rilievo: une saison. Sull’altra: en enfer. Ai piedi di quelle specie di steli funerarie, era appoggiato un pesante blocco quadrato, anch’esso in pietra, verdastro per l’umidità. Su una delle sue facce si potevano leggere queste parole: «Qui Rimbaud ha scritto il suo capolavoro». L’idea di innalzare questo brutto monumento la si deve a Paul Boens, un ex istruttore d’autoscuola belga che, qualche decina di anni prima, dopo aver acquistato il terreno su cui sorgeva la fattoria dei Rimbaud, e dopo essersi auto nominato esecutore testamentario di Arthur, aveva cominciato a scavare tutto intorno alla ricerca infruttuosa di quei sedicimila e rotti franchi d’oro che il poeta avrebbe portato con sé dall’Abissinia (li teneva nascosti dentro la cintura, pesavano otto chili e gli fecero venire un po’ di dissenteria). Della fattoria rimaneva ormai solo un muro. Quello, forse, che sosteneva la grande porta carraia d’ingresso sopra la quale si trovava il granaio in cui nel 1873 Rimbaud avrebbe concepito gran parte della Saison.
Ad agosto 1873, in particolare, durante il tempo in cui il resto della famiglia batteva il grano sull’aia e lavorava nei campi. Qualche mese più tardi Arthur presentò alla famiglia il frutto di quelle sue «serie occupazioni». Quando la madre – la terribile «mother», la «bouche d’ombre», severa, autoritaria, inflessibile – ebbe per la prima volta tra le mani una copia della Saison en enfer, ne sfogliò qualche pagina qui e là, e a quel punto domandò al figlio cosa mai avesse voluto dire con ciò che aveva scritto. Arthur la guardò con i suoi occhi azzurro chiari, occhi assai belli, dall’espressione sorniona e crudele, ma dai quali, come ha scritto Verlaine, «sorrideva e brillava una specie di dolcezza», alzò le spalle e poi disse, semplicemente: «Ho voluto dire quel che ho detto, letteralmente e in tutti i sensi».