Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  novembre 14 Domenica calendario

In morte di Wilbur Smith

Antonio Carioti, Corriere della Sera
Sembrava nato apposta per narrare l’avventura, con un talento naturale impressionante. Lo scrittore Wilbur Smith, scomparso ieri all’improvviso all’età di 88 anni a Città del Capo, in Sudafrica, aveva una sorta di tocco magico nel catturare l’affetto dei lettori, in particolare di quelli italiani, che lo seguivano con convinta assiduità. Si calcola che nel mondo i suoi oltre quaranta romanzi avessero venduto qualcosa come 140 milioni di copie, dei quali circa 26 soltanto nel nostro Paese. Produrre bestseller era il suo mestiere, sin dall’esordio nel 1964 con Il destino del leone (Longanesi, 1981; HarperCollins Italia, 2020).
Il segreto di Smith? Una miscela d’ingredienti ben calibrati. Vicende appassionanti e drammatiche, personalità spiccate, sentimenti intensi, ambientazioni esotiche, a partire dall’Africa australe, dove l’autore era nato, per arrivare all’Egitto antico dei faraoni.
La sua prosa afferrava il lettore e lo trascinava quasi di forza in un mondo pieno di suggestioni emozionanti, dal quale era impossibile staccarsi e che invogliava a conoscere altri passaggi delle sue lunghe saghe narrative in diverse tappe. Erano mirabolanti itinerari nel mondo della fantasia, ai quali il pubblico si affezionava facilmente. Aveva costituito anche una fondazione, intitolata a sé stesso e alla quarta moglie Niso, per promuovere la narrativa d’avventura con annesso un premio letterario.
Smith sosteneva di essere stato accompagnato nella vita da una «fortuna sfacciata», ma aveva conosciuto anche momenti difficili prima di affermarsi come romanziere di successo negli anni Sessanta. Era nato il 9 gennaio 1933 a Broken Hill, oggi Kawbe, in quella che allora era la Rhodesia del Nord, protettorato britannico, e in seguito è diventata lo Stato indipendente dello Zambia. A 18 mesi era stato colpito dalla malaria cerebrale, ma l’aveva superata felicemente. Gli piaceva ripetere che però era rimasto «un po’ matto» e questo lo aveva aiutato nella carriera di romanziere.
Il padre di Smith, tipico colonizzatore dell’epoca vittoriana, era un uomo severo, pronto a infliggere punizioni corporali al figlio per le sue marachelle. Allevava bestiame nella sua tenuta di 12 mila ettari, dove il piccolo Wilbur, che adorava il papà come un semidio, aveva trascorso anni di giochi nella boscaglia e piccole battute di caccia con la fionda insieme ai figli dei dipendenti neri dell’azienda. A 8 anni aveva ricevuto in dono il primo fucile e aveva presto imparato a sparare con grande precisione.
Dalla madre Elfreda Lawrence aveva invece mutuato l’amore intenso per la narrativa di ogni genere. «Ogni sera – ricordava – mi leggeva storie della buonanotte». Smith aveva preso dimestichezza con i libri per ragazzi, poi con autori come Henry Rider Haggard, John Steinbeck, Rudyard Kipling. Era nata in lui l’aspirazione a scrivere, magari nella veste di giornalista, alimentata più tardi negli anni al collegio Cordwalles, in Sudafrica, grazie al sostegno di un insegnante d’inglese che gli si era molto affezionato.
Il padre di Smith riteneva però che ci si dovesse guadagnare la vita in ben altro modo e il giovane Wilbur, dopo la laurea in Scienze commerciali alla Rhodes University, aveva intrapreso il mestiere di contabile per il fisco britannico. Poi si era sposato, ma il suo primo matrimonio, da cui erano nati due figli, era rapidamente naufragato, lasciandolo in difficoltà economiche.
Non aveva però abbandonato il sogno di diventare un narratore e aveva pubblicato i primi racconti, con un soddisfacente riscontro. Invece il romanzo The Gods First Made Mad («Gli dei prima ti fanno impazzire») era stato rifiutato da parecchi editori e non è mai uscito. Lo stesso Smith, rievocando quel suo maldestro tentativo, ne parlava in tono fortemente autocritico, ammettendo di aver commesso «tutti i grossi errori nei quali un giovane scrittore può incappare».
Tutt’altra musica per Il destino del leone, un successo immediato che nel 1964 aveva proiettato l’autore verso la notorietà, consentendogli di diventare un romanziere a tempo pieno, anche se nel Sudafrica bigotto di allora il romanzo era stato vietato. Le vicende drammatiche e strazianti dei fratelli Sean e Garrick Courtney, ambientate nel Natal ottocentesco, avevano affascinato una vasta platea di lettori e dato il via a una saga destinata a durare – coinvolgendo antenati e discendenti dei protagonisti – e a suddividersi in tre cicli che coprono un arco di tempo dal XVII secolo (Uccelli da preda, Longanesi, 1997) ai nostri giorni (Tempesta, HarperCollins Italia, 2021).
Ai Courtney si sarebbero poi aggiunti, a cominciare dal romanzo Quando vola il falco (Longanesi, 1986), i Ballantyne: un’altra stirpe di avventurieri immersa nello scenario di un’Africa selvaggia e contesa lungo un periodo di circa un secolo. E infine le due famiglie si sarebbero incontrate in un’ulteriore saga cominciata con Il trionfo del sole (Longanesi, 2006).
Nel frattempo l’infaticabile Smith aveva prodotto dagli anni Novanta in poi la serie dei suoi romanzi ambientati nell’antico Egitto, che si dipanano nell terra delle piramidi: un ciclo di alcuni libri nel quale spicca la figura dell’eunuco Taita, scriba, mago e generale. Altro personaggio al centro di una saga concepita da Smith è Hector Cross, ex ufficiale dei corpi speciali britannici, che ai giorni nostri diventa titolare di un’agenzia di sicurezza e affronta nemici spietati con la determinazione e la prestanza atletica di uno 007 aggiornato.
La vita privata di Smith aveva attraversato diverse fasi. Dopo un secondo matrimonio andato a monte, aveva sposato nel 1971 Danielle Thomas, morta nel 1999 per un tumore al cervello, e quindi nel 2000 erano giunte le quarte nozze con la giovane tagika Mokhiniso Rakhimova, detta Niso. Aveva avuto dai primi due matrimoni una figlia e due figli, con cui i rapporti non erano stati facili.
Ben saldo, come si è detto, era il legame di Smith con l’Italia, dove viaggiava spesso e le sue opere – pubblicate prima da Lonesi, poi da HarperCollins – andavano a ruba. Con sincera gratitudine mista forse a un pizzico di adulazione, usava lodare l’eredità culturale dell’antica Roma e anche la missione civilizzatrice svolta dalle legioni nelle isole britanniche. Ma il suo primo amore restava ovviamente l’Africa. Grande ammiratore del presidente sudafricano Nelson Mandela – che definiva «eroe globale» – auspicava che il continente riuscisse a difendere meglio il suo patrimonio naturale e a utilizzare in modo equo le tante risorse disponibili.
Innamorato perdutamente del suo lavoro, Smith sosteneva di avere un gran numero di libri in testa «che chiedono a gran voce di essere scritti». In età avanzata continuava a lavorare con immutato entusiasmo, avvalendosi dell’assistenza di coautori ai quali riconosceva il loro ruolo: Giles Christian, Tom Harper, David Churchill, Tom Cain, Mark Chadbourn e altri. Con Chris Wakling aveva inaugurato una serie di libri per ragazzi. 
Nel 2018 aveva pubblicato il libro di ricordi Leopard Rock, soffermandosi in particolare sulle vicende più curiose e rocambolesche del periodo in cui trovava eccitante il pericolo. Ma la vocazione più imperiosa di Smith era sempre stata mettersi alla scrivania davanti a fogli da riempire. Sentirsi «creatore di mondi» lo rendeva felice.

***

Gianni Riotta, La Stampa
«So che i critici considerano i miei libri roba da aeroporto, tascabili da consumare in volo e dimenticare sul sedile, ma se continuo a scrivere, a 88 anni, è per il piacere che mi prende all’inizio di un nuovo romanzo, il gusto dell’avventura»: così raccontava sorridendo, in una intervista dello scorso aprile, lo scrittore di best seller Wilbur Smith, scomparso ieri. Era nato il 9 gennaio del 1933, a Broken Hill, allora colonia britannica della Rhodesia del Nord, «mio padre cercava una vita migliore per la famiglia» ricordava Smith, consapevole che il benessere dei bianchi era frutto di sofferenze e oppressione per gli africani. La sua passione per i libri non era vista bene, «papà pensava fosse una perdita di tempo e che dovessi invece lavorare». Ma la prima occupazione, fare il poliziotto in Rhodesia, non è adatta al ragazzo romantico, cresciuto «con la mamma che mi leggeva ogni sera le favole a letto e una passione per i romanzi di Kipling, so che oggi non è di moda nei college e su twitter, ma a me faceva sognare». «Non volevo perpetuare le ingiustizie, mi tolsi la divisa e presi a scrivere, senza alcun successo e con molte lettere di Grazie No dagli editori, finché un agente letterario inglese non lesse un mio titolo e ne rimase colpito».
Gli scaffali delle librerie degli aeroporti han dovuto, da allora, far spazio al prolifico autore, oltre 50 titoli, molti ordinati in saghe, i Courtney, i Ballantyne, Hector Cross, il ciclo egizio, 130 milioni di copie vendute, i film sceneggiati dalle trame, royalties a pioggia che gli consentono perfino di comprare un’isola privata alle Seychelles, «ma preferisco vivere a Città del Capo, in Sud Africa, il tempo è meraviglioso e amo vedere il mare».
Il destino del leone, suo titolo del 1964 tradotto da HarperCollins, contiene il cocktail che i lettori di Smith amano e i critici disdegnano, le vicende di due fratelli, Sean e Garrick Courtney, che da imprese di caccia, tra selvaggina africana e potenti fucili dei coloni, il lavoro con le mandrie, gli amori, le pene, le guerre locali con gli zulu, costretti a cedere ai bianchi allevamenti, pascoli, villaggi e terre, offrono una filosofia di vita semplice e torrida, lo scontro tra bene e male, tra violenza e tranquillità familiare, tra uomo e natura.
I titoli si susseguono, il cinema li amplifica, la formula sperimentata non muta, il pubblico resta fedele. «Il mio segreto? Il lettore vuol sapere che cosa accade nella prossima pagina, e io glielo dico» scherzava Smith «l’ho imparato quando scrivevo i romanzi sul retro della cancelleria dell’ufficio, ogni foglio prezioso. Il miglior risultato venne quando mio padre scoprì che anche uno scrittore può esser ben pagato e si rappacificò col mestiere». Il libro a cui ha lavorato ancora fino a pochi mesi fa, Legacy of War, gli dava particolare gioia, come diciottesimo tomo della saga dei Courtney, che -nel rispetto dei nuovi tempi- danno la caccia a criminali nazisti nascosti in Africa, guidati da Saffron Courtney, «Lo so che un autore non deve avere favoriti tra i personaggi, ma Saffron è sempre stato nel mio cuore».
«Nel corso della vita ho vista gli orrori che colonialismo e sfruttamento hanno imposto sull’Africa, considero Nelson Mandela un eroe. Oggi il Sud Africa ha molte difficoltà, ma sono ottimista, insieme ne verremo fuori» diceva Smith in un discorso dell’ultimo compleanno. Gli editori calcolano che, dalle note, dai progetti, dalle collaborazioni con colleghi, dai manoscritti non pubblicati, l’epopea Wilbur Smith potrebbe tenere gli aeroporti provvisti di nuovi titoli almeno per i prossimi dieci anni. 

***

Riccardo De Palo, Il Messaggero

Wilbur Smith se n’é andato, e con lui scompare un’epoca di romanzi d’avventura, di bestseller che hanno tenuto con il fiato sospeso milioni di lettori in tutto il mondo. Se un autore si misura dalle copie vendute, lo scrittore nato in Zambia, e con le radici ben piantate in Sudafrica, era un fenomeno straordinario: oltre 140 milioni di copie vendute nel mondo, di cui oltre 23 in Italia. «Siamo spiacenti di annunciare che l’amato autore di bestseller internazionali Wilbur Smith è deceduto inaspettatamente nella sua casa di Cape Town, con la moglie Niso al suo fianco», è il laconico testo che ha informato il mondo della sua scomparsa. 
Il maestro dell’avventura aveva 88 anni, ed aveva iniziato la sua carriera nel 1964, quando il mondo era diviso dalla Guerra Fredda, i Beatles pubblicavano A Hard Day’s Night e a Zanzibar si consumava la rivoluzione che ha portato all’odierna Tanzania.
IL NUOVO LIBRO
Da poco aveva pubblicato Il Nuovo Regno, dedicato all’antico Egitto. Per terminarlo aveva collaborato con Mark Chadbourn: le scadenze a una certa età pesano. Al centro del nuovo romanzo, la vita di Hui, figlio del governatore di Lahun, destinato a seguire le orme del padre alla guida di una bellissima città dalle bianche mura; e naturalmente per contrastarlo sono all’opera forze malvagie. «L’Egitto mi ha sempre affascinato - aveva detto l’autore pochi giorni fa - rappresenta il crocevia dei continenti, le fondamenta della storia della civiltà». Proprio il personaggio del medico-mago Taita, confessò una volta, era uno dei suoi preferiti.
Dai libri sul Nilo alle avventure di mare e di terra, dal ciclo dei Ballantyne a quello dei Courtney, Wilbur Smith sviluppava senza sosta saghe e temi, riuscendo sempre nell’intento di far sognare generazioni di lettori. Alle gesta dei Courtney aveva aggiunto di recente un ennesimo capitolo, Il fuoco della vendetta (anche questo scritto a quattro mani, con Tom Harper). All’uscita di La guerra dei Courtney, nel 2019, aveva confessato che il suo editore si era accorto che la saga iniziata 54 anni fa era «la più longeva di un singolo autore, nella storia dell’editoria moderna». «Abbiamo battuto anche Agatha Christie - aveva detto lo scrittore - che aveva fatto un bel tratto di strada con il suo beneamato detective Poirot». Eppure suona curioso come anche lui, agli esordi della carriera, abbia dovuto subire dei rifiuti dagli editori.
SALTI NEL TEMPO
Quando la famiglia Courtney è cresciuta, aveva aggiunto Smith, aveva cominciato a parlargli, compiendo salti nel tempo, «dal Seicento di Uccelli da preda fino alla corsa all’oro, alla nascita del Sud Africa e, attraverso la prima e la seconda guerra mondiale, ai nostri giorni».
Ma la grande passione per le storie d’avventura Wilbur Smith l’aveva ereditata da suo nonno, Courtney James Smith, che aveva la capacità di tenerlo incollato ai suoi racconti. «È a partire da lui, dal suo spirito, che sono iniziate le grandi avventure della famiglia Courtney. Sarebbe così contento di sapere che questi personaggi sono ancora vivi oggi, tanti anni dopo la sua morte».
Come molti altri scrittori, Wilbur Smith faceva molte ricerche preliminari. Ma erano sempre «ricerche di prima mano», e senza portare con sé un taccuino, senza prendere appunti di alcun tipo. La sua memoria era prodigiosa e, ciò che più contava, era l’emozione che accompagnava ogni scoperta a guidarlo nella struttura dei suoi romanzi. «Vivo l’avventura e poi racconto la storia», ammetteva con candore.
Ai tempi di Un’aquila nel cielo (1974), Wilbur Smith passò molto tempo con ex militari, che gli spiegarono come raccontare la guerra. Rimase molto sorpreso, dopo la pubblicazione di La legge nel deserto (2011, primo della serie dedicata al personaggio di Hector Cross), quando ricevette un opsucolo di Beretta: «Apprezzava - raccontò l’autore - che i suoi prodotti fossero menzionati nei miei romanzi. Se avessi voluto saperne di più, c’era tutto nel catalogo; altrimenti, avrei potuto fare un giro del loro stabilimento. Cosa che poi feci, per delle ricerche sui fucili che stavano producendo per l’esercito britannico».
Nei suoi 49 romanzi, Wilbur Smith ci ha portato spesso nella sua terra natia, l’Africa, ma anche in giro per il mondo, in Germania e a Parigi durante la Seconda guerra mondiale, nell’America della segregazione razziale. Il nome lo doveva a Wilbur Wright, uno dei fratelli che misero insieme il primo aeroplano - come raccontò nella sua autobiografia, On Leopard Rock. Wilbur Smith era nato il 9 gennaio 1933 in quello che una volta era la Rhodesia del Nord (e oggi Zambia). Suo padre era operaio, lavorava alle lamiere; fu sua madre, invece, a inculcargli l’amore per i libri, spingendolo a leggere autori come Cecil Scott Forester, Rider H. Haggard, John Buchan. Ci credereste? All’inizio, lavorava come contabile. Il richiamo dell’avventura fu più forte di lui.