Corriere della Sera, 14 novembre 2021
Biografia di Roberto Vecchioni raccontata da lui stesso
Roberto Vecchioni, qual è il suo primo ricordo?
«Ho un anno e mezzo e ho fatto la pipì sul pavimento. Mia mamma rientra a casa e io incolpo il cavallo a dondolo: “Avallo pipì terra”».
«Oh oh cavallo...». È il suo destino.
«Papà scommetteva all’ippodromo. Possedeva pure un cavallo da corsa: Nelumbo, nome giapponese. Il cavallo è la svolta nella storia d’Europa. Prima esisteva una civiltà matristica, in cui uomini e donne erano uguali. Poi arrivarono gli indoeuropei, a cavallo, e cambiarono tutto: fecero la guerra, costruirono mura, imposero l’egemonia dell’uomo».
E il suo primo ricordo pubblico?
«Gli eroi: Garibaldi, e l’Inter».
I suoi genitori sono napoletani.
«Mamma aveva una nonna principessa: si chiamava Lonardi, parente di Eduardo Lonardi, presidente dell’Argentina. Si trasferì a Milano per seguire mio padre, rappresentante di tessuti. Lui milanista, io interista; lui liberale malagodiano, io comunista; ma ci siamo sempre rispettati».
La Grande Inter.
«Divenni interista prima, al tempo del Milan del Gre-No-Li, che era molto più forte di noi. Comprammo Angelillo, l’angelo con la faccia sporca, ma purtroppo si innamorò perdutamente di una ballerina, Ilya Lopez, che si chiamava in realtà Attilia Tironi... San Siro aveva un solo anello. I miei amici e io non avevamo i soldi per il biglietto, così scavalcavamo».
Chi era il suo eroe?
«Corso. Fingeva di non esserci, poi calciava una punizione a foglia morta. Comunque i più forti che ho visto dal vivo sono Maradona e Ronaldo. Quello vero, il nostro».
Nel 1964 la prima Coppa dei Campioni.
«Al Prater di Vienna. C’ero. E ho chiuso il cerchio nel 2010, portando la famiglia a vedere l’Inter vincere la finale di Champions a Madrid. Festeggiamo tutta la notte con quelli del Bayern, che pure avevano perso».
Tra Milan e Juve chi tifa?
«Ovviamente Milan».
Le prime canzoni?
«A 18 anni. Dedicate ad Aiace, e alla battaglia di Maratona. Immaginai che Filippide fosse un ladro d’armi, che razziando cadaveri sentì un morente sussurrare: vai da mia moglie e dille che abbiamo vinto».
Volava alto...
«Mi esibivo in locali dove pagavano duecento lire, cioè nulla, ma si poteva bere a volontà. C’erano Paolo Poli e Paola Borboni. Più tardi conobbi Alda Merini».
Che ricordo ne ha?
«Era folle d’amore. Una volta prendemmo un taxi insieme. Il tassista la riconobbe, le disse che la figlia stava facendo una tesi su di lei. Alda lo pagò con diecimila lire: “Tenga il resto, per gli studi della sua bambina”. Poi mi chiese: “Roberto, mi presteresti cento lire per il pane?”».
Cosa faceva nel ’68?
«Mi sono laureato alla Cattolica. Ricordo Mario Capanna: molto serio, sempre contrario alla violenza. Che però c’era, da una parte e dall’altra».
In Stranamore lei descrive un’aggressione fascista: «A ogni pugno che arrivava dritto sulla testa la mia paura non bastava a farmi dire basta...».
«Mi picchiarono davvero, perché non volevo comprare il loro giornale, come dice la canzone. Però fu solo qualche ceffone. Nell’arte si esagera sempre un po’».
Lei è stato amico dei più grandi cantautori. Franco Battiato com’era?
«Dietro la timidezza si nascondeva un mattacchione. Bravissimo raccontatore di barzellette».
Con Francesco Guccini quando vi siete conosciuti?
«A Sanremo, nel 1974. Non al Festival; al club Tenco. Lui aveva una bottiglia di bourbon, io di whisky. Facemmo gara a chi beveva di più».
Chi vinse?
«Eravamo troppo ubriachi per stabilirlo. Quella sera mi accorsi che Francesco, nonostante l’aspetto rabelaisiano, da gigante godereccio, è di animo malinconico. Un crepuscolare».
Una delle sue canzoni dice: «Milady smettila di bere, ti spacco in testa quel bicchiere...».
«Infatti ho smesso. Del tutto: neanche un sorso di vino. Sette anni fa. Mi accorsi che stavo male, che perdevo tempo e attenzione per i figli».
Quanti figli ha?
«Francesca dal primo matrimonio. Carolina, Arrigo ed Edoardo da Daria, mia moglie da quarant’anni».
A Francesca dedicò una canzone dal testo molto duro: «Figlia, non voglio che tu sia felice, ma sempre contro, finché ti lasciano la voce...».
«Intendevo dirle di non cercare scorciatoie, di non piegarsi al potere, di non diventare opportunista. Non lo è diventata. È impegnata in Diversity, che difende le persone omosessuali e tutti coloro che subiscono discriminazioni. L’ho accompagnata ad Amsterdam per l’inseminazione artificiale, e ora ho due nipoti che sono gemelle, anche se molto diverse: Nina è bionda e alta, Cloe piccola e mora. Ho altre due nipoti da Carolina: Amelia ha otto anni, Adelaide tre».
Che nonno è Vecchioni?
«Una delle parole ricorrenti delle mie canzoni, oltre ad amore e stelle, è gioco. Passo il Natale a organizzare giochi per figli e nipoti. Abbiamo una casa sul lago di Garda, con un giardino che viene illuminato a giorno, le renne, un Babbo Natale alto tre metri. Sono un maestro di Mercante in fiera, invento indovinelli pazzeschi, e poi la caccia al tesoro, la tombola, ma anche gli scacchi, il bridge, i quiz... Pure le cose pericolose vanno affrontate come un gioco: un esame, una canzone da cantare per la prima volta, una malattia. Ho avuto tre tumori, tre operazioni, a un polmone a un rene alla vescica. Eppure ho compiuto 78 anni e sto benissimo».
Un’altra sua parola chiave è sogno.
«Il sogno non è la negazione della realtà; è una sovrapposizione positiva della realtà. A volte la anticipa».
Fa sogni premonitori?
«Spesso».
Ad esempio?
«Ho sognato più volte di vincere Sanremo».
Nel 2011 è successo davvero.
«Ne ero sicuro. Arrivai, feci le prove, andai a cena: il ristorante era vuoto. Alla fine della prima serata, dopo aver cantato Chiamami ancora amore, fuori dallo stesso ristorante c’erano quattrocento persone. Capii che il sogno era vero».
Una canzone antiberlusconiana.
«Anche. Una canzone politica. C’è Berlusconi, ci sono i licenziati Fiat. C’è l’Italia della grande crisi, che chiedeva un cambiamento. Berlusconi cadde otto mesi dopo».
Nel 1991 lei vinse pure il Festivalbar, con una canzone che le costò molti attacchi. Diceva: «Voglio una donna con la gonna...».
«Non era antifemminista. Ma le donne non devono diventare come gli uomini, in particolare quelli che non amo: i ricchi, i radical chic. Ne L’ultimo spettacolo dico alla donna che mi sta lasciando: “Non ti ho mai considerata roba mia”».
In molte canzoni lei viene lasciato, e anche tradito. Ad esempio in Due giornate fiorentine: «Con lui ieri Firenze, i monumenti, il cielo, il letto/ con me oggi una noia da sala d’aspetto...».
«Eravamo a Firenze, e la mia ex moglie mi lasciò da solo per raggiungere il suo amante in albergo. Lo intuii, glielo chiesi. Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo, pensai che era stato tutto finto. Con il tempo ho capito che l’amore non finisce mai. È soltanto incarnato da un altro volto».
«E col passare del tempo non ti importa nemmeno...».
«...Chi le bacia gli occhi, chi le tocca il seno. Questa invece è Carnival».
Anche Luci a San Siro parla di una delusione d’amore.
«Lei mi lasciò il giorno in cui partivo militare. Facevo il Car a Casale Monferrato e soffrivo come una bestia. Allora presi la chitarra e scrissi una canzone: così la donna che avevo amato avrebbe avuto vent’anni per sempre».
E la riempì di improperi.
«Infatti la stessa musica fu portata a “Un disco per l’estate” con un altro testo, sempre scritto da me. Il ritornello faceva: “Ho perso il conto/ di chi ho rimpianto...”. Fu affidata a Rossano, un cantante molto bello, che sciaguratamente si era fatto crescere la barba. In semifinale gli suggerirono di tagliarla. Lui si presentò alla finale glabro: nessuno lo riconobbe, e perse miseramente. In compenso i Nuovi Angeli portavano un’altra mia canzone, che vendette due milioni di copie».
Quale?
«Forse non tutti sanno che ho scritto Donna felicità».
Samarcanda invece racconta l’impossibilità dell’uomo di sfuggire al proprio destino.
«Sì. Ma nel frattempo ho cambiato idea. Il destino è una cosa che ti porti dentro; e dipende soprattutto da te. Certo, esiste il Caso; ma non la Necessità. Siamo noi che costruiamo la nostra sorte».
Lei crede in Dio?
«Sì. E non le dirò la solita menata tipo “ci credo a modo mio”. Ci credo e basta. Da cattolico, sia pure poco praticante».
E come fa a essere sicuro della sua esistenza?
«Perché il mondo è imperfetto. Se fosse perfetto, senza un clinamen, senza deviazioni, allora non ci sarebbe Dio. Invece Dio c’è, perché ci ha permesso, con il libero arbitrio, di affrontare il male e il bene».
Come immagina l’Aldilà?
«In due modi. O come spiritualità pura, beatitudine assoluta, tipo Paradiso dantesco».
Oppure?
«Oppure come la vita che ricomincia da capo».
E lei cosa farà in questa vita nuova?
«Forse non il cantante. Probabilmente l’artista. Di sicuro, amerò moltissimo».