Corriere della Sera, 14 novembre 2021
Paola Severino, l’outsider per il Quirinale
Raccontano che entrando nel suo grande studio di avvocato penalista in piazza della Libertà, nel quartiere romano di Prati, non dimentichi mai di fermarsi un attimo davanti a una scultura in bronzo che tiene in corridoio. È un grande corno con la testa di Pulcinella, agganciato al soffitto con un anello, opera di un artista napoletano, che spicca tra i quadri d’autore e un’armatura da samurai. «Una carezzina gliela do», dice quasi a se stessa Paola Severino sfiorando il corno. Ma è difficile pensare a questa concessione alla scaramanzia partenopea, in una donna che ha costruito, più di una carriera, un profilo professionale con una tenacia declinata al femminile in ambienti maschili e maschilisti: al punto da essere percepita oggi non come una candidata ma certo una «candidabile» al Quirinale.
Chi la conosce sostiene che le piacerebbe vedere al posto di Sergio Mattarella la Guardasigilli Marta Cartabia; e che ritiene il premier Mario Draghi la persona che «meriterebbe di andare al Quirinale, perché non dev’essere una colpa il fatto di essere bravi». E lei, «prima della classe» non politica, non ci pensa? Lei, giurano, si limita a osservare, accudita dai colleghi di università che per stima, o magari solo per gratificarla, le profetizzano un futuro presidenziale. Sta al gioco, e assiste a quelli altrui, convinta da tempo che se non passerà Draghi dalle prime votazioni «si rischia un putiferio».
Dalla politica, tranne la parentesi come ministro della Giustizia durante il governo di Mario Monti dal 2011 al 2013, è sempre stata distante. Quando l’attuale senatore a vita le propose di candidarsi nel 2013, declinò l’offerta, tornando alla professione e all’insegnamento. Sarebbe difficile darle una collocazione precisa negli schieramenti. È lontana dai partiti, sebbene non dal potere. Ma lo declina nei consigli di amministrazione, nelle aule di tribunale e in quelle universitarie. È questo l’ambiente in cui si è sempre mossa, rendendola uno degli avvocati e dei terminali più influenti della nomenklatura romana. Prima rettore e ora vicepresidente della Luiss, l’università creata a Roma dalla Confindustria. Avvocato difensore in anni meno recenti di Romano Prodi, ex presidente dell’Iri, poi premier e numero uno della Commissione europea.
E da tempo, Paola Severino è il legale più ascoltato del costruttore, editore e finanziere Francesco Gaetano Caltagirone: tra i tanti potenti che si rivolgono a lei, facendole guadagnare, oltre a molti soldi, la fama di «principessa del Foro»; e l’altra, venata dalle invidie, di «avvocatessa dell’élite»: definizione raccolta in ambienti grillini, quasi come antitesi agli «avvocati del popolo» arruolati dal M5S. Eppure, qualche giorno fa Draghi l’ha nominata presidente della Scuola nazionale d’amministrazione. La Sna è un’istituzione arrugginita che Severino dovrebbe avvicinare all’Ena francese: la fucina della dirigenza pubblica che sforna premier e presidenti. Incarico di quattro anni, a titolo gratuito.
Ma Severino rivendica sempre anche di avere istituito una fondazione che assiste legalmente i detenuti troppo poveri per permettersi un difensore vero. È quello, il suo mondo da quando la sua famiglia originaria di Napoli, padre magistrato, si trasferì a Roma. Ora che il nome spunta come ipotesi di scuola «se bisogna andare su una donna», per il Quirinale, si dilata l’immagine di lontananza dalla politica. È vero, ha ottimi rapporti col segretario del Pd, Enrico Letta; ma per ragioni universitarie. Quando Letta dirigeva SciencePo a Parigi, le ha chiesto di aprire un canale con la Luiss, creando tra i due atenei dei «Dialoghi italo-francesi». Ancora, Draghi, col ministro di FI Renato Brunetta, le hanno affidato l’incarico di riplasmare la Sna. Ma dire che questo la rende una candidata di Silvio Berlusconi è come minimo opinabile.
Chi l’ha sondata si è sentito rispondere che «nessuno può considerarsi candidato senza compiere un atto di arroganza. Il potere assoluto è del Parlamento». Tra l’altro, dentro FI c’è chi non le perdona di essere l’autrice, come Guardasigilli del governo Monti, di quella «legge Severino» per effetto della quale nel novembre del 2013 Berlusconi fu fatto decadere da senatore. «Mezzo parlamento non la voterebbe per la sua legge...», sibila chi la percepisce oscuramente come un’insidia. La maternità di quella misura le è stata affibbiata come una patente giustizialista. E questa, forse, è la critica che le brucia di più. Quando una persona gliel’ha riferita, con freddezza ha risposto: «Sono sempre stata garantista. Lo dice la mia biografia di avvocato, e non solo».
In qualche modo lo dice anche il suo amore per il teatro. Ai suoi studenti universitari faceva simulare i processi come in un film. Ma recita anche lei. Salì sul palcoscenico nel 2003, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, all’inizio di una serie di «Processi alla Storia» dove doveva difendere un’assassina rea confessa della Rivoluzione francese, Charlotte Corday. Accusatore: l’allora «stella» Antonio Di Pietro, pm di Mani pulite. Severino quel giorno perse il «processo», ma da allora ha difeso molti personaggi storici, in spettacoli rappresentati davanti soprattutto al pubblico della Roma che conta. E accanto a «teatranti» eccellenti: magistrati, imprenditori, gli stessi Gianni Letta e Pier Ferdinando Casini, e altri «candidabili». Una volta chiesero a Ronald Reagan se un attore poteva essere presidente degli Stati Uniti. Reagan rispose, fulmineo: «Mi chiedo se un presidente possa non essere anche attore». Quando le hanno raccontato l’aneddoto, Paola Severino ha annuito, sostenendo di essere totalmente d’accordo con Reagan: in primo luogo come avvocato. È solita dire che «il teatro rende vivo il diritto». E il Quirinale, in fondo, è il primo palcoscenico d’Italia.