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 2021  novembre 13 Sabato calendario

Confessioni di Ilie Nastase

Ilie, come sta?
«Fuori sto benone. Dentro, non lo so». 
L’impossibilità di essere banale, a costo di inimicarsi mezzo mondo, è da sempre il tratto distintivo di Ilie Nastase, 75 anni, rumeno di Bucarest («Qui la pandemia è un casino, la gente ha cominciato a vaccinarsi per paura ma è tardi: ogni giorno muoiono 4-500 persone, il governo è caduto, non c’è nessuno che prenda decisioni per il popolo...»), ex campione di tennis funambolico (due titoli Slam in carriera) e parlamentare, sindaco mancato, playboy impenitente («Non lo dica a mia moglie Ioana!»), scrittore di romanzi polizieschi, chissà cos’altro. È Nasty, protagonista di indimenticabili mattane nei ruggenti Anni 70, a introdurci alla magia delle Atp Finals, il torneo dei maestri che decolla domani a Torino con Berrettini enfant du pays. Ne ha pieno titolo: cinque finali consecutive dal ’71 al ’75, quattro titoli Master, l’ultimo a Stoccolma umiliando Borg. 
Ricordi del primo Master, Nastase? 
«A Parigi, su un campo in moquette stranissimo e velocissimo: chiedemmo palle sgonfie, sennò era impossibile giocare. Era l’anno dopo il debutto del torneo, a Tokyo nel ’70. C’erano ancora i round robin: l’anomalia del tennis a eliminazione diretta». 
Cinque finali consecutive nel torneo di fine anno: significa che il dominatore era lei. 
«Bah, che vuole che le dica, a quei tempi ci si divertiva, non eravamo ingessati come i campioni di oggi. Nel ’73, a Boston contro Okker, lo sciopero dei giudici di sedia minacciò la finale: scegliemmo delle persone tra il pubblico, chi vuole arbitrarci? Nel ’75, a Stoccolma, diedi 6-2 6-2 6-1 al mio amico Borg, a casa sua. L’anno dopo Bjorn si prese la rivincita a Wimbledon. In entrambe le occasioni fu imperscrutabile: non una parola». 
Cos’era il Master, a quei tempi? 
«Una festa di fine stagione, una specie di gita di classe in giro per le capitali del mondo. La sera si usciva tutti insieme a cena. Ognuno aveva il suo stile, la sua personalità. Oggi giocano a tennis tutti uguale, sembrano macchine di Formula 1, solo Federer si distingue, ma che fine ha fatto?». 
Non segue più il tennis, quindi? 
«Mi annoia, guardo solo Simona Halep, mia connazionale, e i giovanissimi, tipo Emma Raducanu. Il tennis è diventato uno sport troppo fisico, sono tutti marcantoni alti e forzuti, inutile fare paragoni con la mia epoca. Parliamo d’altro, la prego...». 
Le Atp Finals in Italia sono una buona notizia? 
«Per voi italiani ottima! Il vostro tennis sta vivendo un boom, ve le meritate. E, se mi invitano, vengo anch’io». 
Berrettini e Sinner le piacciono?  
«Alti, potenti, gran servizio: moderni, insomma. Ci sono ancora in giro Djokovic e Nadal, ma con il tempo vinceranno tanti Slam». 
Il nostro Paese lo conosce bene, Ilie, non solo per aver vinto a Roma e Firenze. 
«Ho tanti ricordi, in effetti. A vent’anni, con Ion Tiriac, fummo ospiti per mesi di Carlo D’Alessio, avvocato romano e re degli ippodromi, a Trastevere. In cambio dell’ospitalità, insisteva che insegnassimo a giocare al figlio Francesco. Sei mesi in Italia senza pagare un cent! Quante ne abbiamo combinate... La sera si cenava con mille lire e, ora della fine del pasto, a tavola eravamo in venti: tutti sconosciuti, incontrati lì, per caso». 
«Ilie ammazzalo!», gridavano dalle tribune del Foro. 
«A Roma mi sentivo come a casa, infatti!». 
Lei e Adriano Panatta, le gag più celebri. 
«Usciamo a cena a Montecarlo, il ristorante è in montagna, siamo un corteo di tre macchine. Adriano, all’improvviso, ferma la sua: tutti fuori, un gatto nero gli ha attraversato la strada! Facciamo 25 km di curve in più per non passare da lì... A Parigi, mi vendico. Do 500 franchi a Mabruk, l’addetto allo spogliatoio, perché mi trovi un gatto nerissimo. Lo infilo nella sacca, lo porto in campo nel doppio contro Panatta e Bertolucci. Lo libero dopo il riscaldamento. Adriano scappa, s’incavola, non ha più voglia. Vinco 6-0 6-1». 
Ha mai perso un amico a causa di uno scherzo? Arthur Ashe, per esempio. 
«Ad Arthur infilai un topo nella borsa delle racchette ma era troppo buono per arrabbiarsi e tenermi il muso». 
Ilie e le donne. Cinque mogli e cinque figli. 
«Ho amato e sono stato amato ma non ero mai a casa. Nessuno dei miei figli ha giocato a tennis e io non ho insistito: meglio così, non voglio soffrire». 
Rifarebbe tutto? 
«Credo di sì: I did it my way, come cantava Frank Sinatra. Non potevo essere diverso. Non ho rimpianti e, se li avessi, non glielo direi». 
Come riempie, oggi, le giornate? 
«Il sindaco di Bucarest vuole fare un museo con i miei cimeli, mi godo la vita, vado a fare il bagno nel Mar Nero, ho un’Accademia ma non scendo più in campo. Con i pantaloni corti, a 75 anni, mi sentirei ridicolo».