Corriere della Sera, 13 novembre 2021
Biografia di Vladimir Luxuria raccontata da lei stessa
Vladimir Luxuria, a che età si è sentita donna?
«Sempre, direi. Da quando ho cominciato a camminare».
Il suo desiderio di essere una persona trans non è stato influenzato da un ambiente familiare, dalla sua educazione?
«Niente di più falso. Io vengo da una famiglia tradizionale del Sud, sono il primogenito di tre sorelle e un fratello. Ho avuto un’educazione rigorosamente maschile. Avevo il fiocchetto azzurro. A carnevale mi vestivano da sceriffo».
E poi?
«Ho subito capito che ero un bambino diverso dai miei cugini, dai miei compagni di scuola. I vestiti da maschio li sentivo addosso come una camicia di forza. Invidiavo mia sorella Laura che poteva tirare i coriandoli vestita da spagnola».
E poi?
«Già a sedici anni mi sono trovata a un bivio. Avrei potuto travestirmi da maschio, accontentare gli altri».
Oppure?
«Ho scelto di diventare me stessa».
È stata una scelta difficile?
«Necessaria, prima di ogni cosa. Non volevo diventare depressa e malinconica. Non volevo che l’invidia per il sesso femminile si trasformasse in cattiveria, mi facesse diventare una persona peggiore. Dopo non è stata certo una passeggiata».
Per via della famiglia?
«Non certo per mia sorella Laura: mi prestava i suoi vestiti, senza chiedermi niente».
E i suoi genitori?
«Non mi hanno mai picchiata né cacciata di casa, come è successo ad alcune mie amiche trans. Però prima che arrivassero a stare dalla mia parte è passato parecchio tempo. Ora è fantastico, sono diventati anche dei militanti».
E quando era ragazzina come l’hanno presa?
«Male, mio padre soprattutto. Comunque all’inizio non si accorgevano di niente».
Cosa vuol dire «non si accorgevano»?
«Forse non volevano accorgersene. Quando ero ragazzina io uscivo di casa con i vestiti di mia sorella dentro una busta di plastica e mi cambiavo dentro i bar o nelle cabine del telefono».
Poi un giorno...
«Una sera, piuttosto. Hanno dovuto cominciare a farsi delle domande quando alla vigilia di Natale mi hanno visto arrivare alla cena con le sopracciglia rifatte. Avevo delle sopracciglia molto cispose. Non proprio come quelle di Frida Kahlo o di Ciampi, ma quella sera lo zio Antonio mi puntò il dito contro come una baionetta: “Hai le sopracciglia come le femmine”. Avevo sedici anni ed erano i tempi in cui i calciatori non si sfoltivano le sopracciglia».
I calciatori si sfoltiscono le sopracciglia?
«Ma certo. Lo fanno praticamente tutti».
I calciatori erano un simbolo della mascolinità. È il sintomo dei tempi che cambiano?
«I tempi sono cambiati, sì. Negli anni Settanta i transessuali venivano trattati come delinquenti abituali, non potevano avere né la patente né il passaporto. Rischiavamo anche il carcere. Ma i problemi sono ancora tanti. In questi giorni mi sto occupando di una bambina di quattordici anni. Un giorno si è chiusa in bagno e i genitori hanno dovuto sfondare la porta: l’hanno trovata sporca di sangue, con una lametta stava cercando di togliersi via il seno».
È ancora una strada molto in salita quella per le persone transgender?
«Purtroppo sì, per molti lo è. Per troppi. Non dimentichiamo che soltanto nel 2018 l’Oms ha riconosciuto che la disforia di genere – il disagio di vivere in un corpo che non si sente proprio – non è una malattia. I pregiudizi, inevitabilmente, sono ancora tanti».
Lei è stata bullizzata?
«Sì. Erano tempi durissimi, sono nata a metà degli anni Sessanta. A scuola mi scrivevano “ricchione” sui libri. Mi facevano la pipì nelle scarpe quando me le toglievo per cambiarmele con quelle da ginnastica. Mi davano spinte, mi tiravano oggetti. Quando avevo diciassette anni un gruppo di ragazzi mi ha anche inseguito con le spranghe. Ma mai ho avuto così tanta paura come una sera a Praga. Avevo ventiquattro anni e sembravo una donna ormai».
Cosa le è successo?
«Ero in un locale, avevo bevuto un po’. C’era uno che mi corteggiava. Gli ho dato spago. Siamo finiti in un albergo. Quando lui ha capito che non avevo la vagina l’ho visto trasformarsi in un assassino. Mi ha sferrato un pugno che ha provocato una crepa nel muro. Se non mi fossi spostata sarei morta».
Era ormai diventata una donna e non si era operata?
«No, non ho mai voluto farlo. Una volta avevo anche assistito a un’operazione di questo tipo, ma ho capito che non volevo. Ho voluto che la mia femminilità convivesse con il mio passato. Non a caso ho mantenuto anche il mio nome da uomo: mi chiamo ancora Vladimir. Sono una trans donna, non una donna trans. E comunque prima di fare le operazioni chirurgiche è passato parecchio tempo».
Quanto tempo?
«La rinoplastica e la mastoplastica le ho fatte nel 2007. Dico sempre che sono un’adolescente perché le tette mi sono spuntate da poco».
E prima in che cosa era consistita la sua trasformazione?
«La prima cosa sulla quale mi sono accanita è stata la barba e tutti i peli in generale. A diciannove anni mi sono sottoposta a molte sedute di elettrocoagulazione, ho scaricato addosso al mio corpo tanta di quella elettricità che la lavatrice si azionava con il mio sguardo».
E dopo cosa ha fatto per diventare donna?
«Un lungo iter psicologico, soprattutto. Poi per fortuna la natura mi ha concesso tante cose. Non ho il pomo d’Adamo, ad esempio. Per toglierlo sarebbe servita un’operazione che penso non avrei mai affrontato. Inoltre ho un fisico esile e le mani affusolate. La voce, però, non è estremamente femminile, è la mia voce naturale del resto. Sono consapevole dei miei limiti».
Lei adesso è una persona famosa. Che effetto le fa?
«Il piacere di tornare nella mia città, Foggia, ed essere accolta come Sophia Loren quando torna a Pozzuoli. Quando vivevo lì mi insultavano, dovevo nascondermi. Negli anni Ottanta i transessuali come me nella mia città avevano una vita durissima. Ricordo Valerio, diventata Valeria. La mia prima amica trans».
Cosa ricorda di lei?
«Una vita drammatica. Lei venne cacciata di casa dai genitori. All’improvviso non sapeva nemmeno dove andare a dormire. Fu un anziano omosessuale a darle un tetto per rifugiarsi. Ma non fu sufficiente per salvarla».
Che cosa accadde a Valeria?
«Quello che all’epoca succedeva ai transessuali, ma anche a tanti gay che venivano ghettizzati. Si drogavano, e poi si prostituivano per trovare l’eroina. Valeria non ce l’ha fatta. Fu trovata morta dietro un binario della stazione. Overdose».
Lei si è mai drogata?
«No, per fortuna».
Le è mai capitato di prostituirsi?
«Sì, per un breve periodo. Ma non lo facevo per soldi. Era una sorta di vendetta. O forse di riscatto. Non lo so dire».
Che tipo di vendetta o di riscatto è stato?
«Con il tempo mi sono resa conto che gli uomini mi volevano soltanto per il mio corpo. Mi ero innamorata di uno che quando ha visto che si stava coinvolgendo mi ha lasciato. Ho sofferto molto. E allora ho pensato: “Gli uomini vogliono soltanto il mio corpo? E allora paghino”. È durata poco, comunque».
Come è stato il suo passaggio da una vita complicata al successo?
«Devo sicuramente dire grazie al Maurizio Costanzo».
Al suo Costanzo Show?
«Sì. Avevo già cominciato ad essere un personaggio pubblico, con i primi gay pride. Con le apparizioni al Muccassassina a Roma. Ma su quel palco era diverso. Andavo nel salotto pubblico più famoso d’Italia. Era il 1998. Due anni dopo ci sarebbe stato il Pride del 2000, un punto di svolta per gli omosessuali e per le persone transessuali in Italia».
Nel 2006 lei è arrivata in Parlamento. Oggi in Italia ci sono due consiglieri comunali transgender, una a Milano, l’altra a Bologna. Sembrerebbe che il mondo sia davvero cambiato...
«Ma il Parlamento adesso non è stato capace di approvare una legge come il ddl Zan. Non posso pensare a quelle urla da stadio in Senato, quando il ddl Zan è stato brutalmente affossato. Mi viene la nausea. Eppure...».
Eppure cosa?
«Adesso non basta dire che la società civile è fortunatamente molto più avanti della politica. È lo stesso Parlamento ad essere andato molto indietro, di tanti anni».
Cosa vuole dire?
«Mi riferisco alla legge 164 del 1982. Con quella norma si accettava che le persone transessuali operate ai genitali potevano essere riconosciute legalmente. È stata una democristiana come Rosa Russo Iervolino che ha dato una grande mano a quella legge. Oggi è sicuramente superata, ma stiamo parlando di quaranta anni fa».
Secondo lei cosa succederà adesso dopo l’affossamento del ddl Zan?
«Faremo sentire la nostra voce. Penso a una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare. Ne bastano cinquantamila, ma sono sicura che se ci mettiamo insieme – le associazioni e qualche partito – superiamo il milione».
Cosa vuole dire alle persone transgender che soffrono per la loro condizione?
«Di diventare se stessi, di non aver paura: una porta chiusa oggi può essere spalancata domani. Di non rinunciare alla propria identità, alla propria interiorità. Di aver fiducia nella vita, nell’amore».
A proposito: lei ce l’ha un fidanzato?
«L’amore io l’ho soltanto sognato, con i film d’amore, le canzoni. Ho sublimato con l’impegno civile, con l’approvazione della gente. Ma non mi arrendo. Mai dire mai. La vita mi ha sorpreso così tante volte».