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 2021  novembre 13 Sabato calendario

Biografia di Eduardo Rescigno raccontata da lui stesso

L’uomo che divulgava la musica ha compiuto 90 anni. Si chiama Eduardo Rescigno e vive in un bell’appartamento di Milano circondato dai suoi libri. Sullo sfondo di una parete un piccolo organo del Settecento, in un’altra stanza un pianoforte speciale, un Welte-Mignon, antenato del grammofono. Rescigno ha portato negli anni Sessanta e Settanta un po’ di cultura musicale nelle case degli italiani, grazie alla diffusione dei fascicoli di storia della musica e poi dei Maestri della musica editi dai Fratelli Fabbri.
Come è nata l’idea della musica in fascicoli da diffondere nelle edicole?
«Siamo un popolo che ha una certa dimestichezza con le melodie, le arie, in generale con l’opera. Ma una scarsa cultura musicale. Giovanni Fabbri, il più anziano dei fratelli, mi fece la proposta di dirigere, curare e anche scrivere un’opera a puntate che avvicinasse gli italiani alla grande musica. Nacque così il progetto. Era il 1964. La prima serie dei fascicoli dedicati alla storia della musica si attestò su una vendita media di 300 mila copie, con punte di mezzo milione. Fu un successo, poi replicato con altre iniziative, grazie alle quali sdoganammo la cultura musicale. Se in tutto questo ho un merito è quello di essermi sempre posto come un divulgatore».
Perché Giovanni Fabbri si rivolse a lei?
«Avevo lavorato in Rai occupandomi piuttosto liberamente di programmi musicali. Mi licenziai quando mi resi conto che ero diventato un impiegato. Nel 1963, per circa un anno, ho lavorato in un negozio di dischi occupandomi della vendita per corrispondenza.
Preparavo di volta in volta una lista di dischi, che avesse un senso, accompagnata dalla descrizione delle opere e degli autori. Io e il mio socio riscuotemmo molto successo. Fu il motivo per cui venni contattato dalla Fratelli Fabbri».
Come si era formato la competenza musicale?
«Da giovane mi diplomai in pianoforte e poi in flauto.
Avevo un padre appassionato di canto e una mamma che suonava il piano. La prima emozione fu quando cercai con mia madre di suonare un pezzo a quattro mani: era una suite di Ravel, troppo difficile allora per le mie capacità. Ebbi così la quasi certezza che per suonare occorresse talento. E che per amare la musica non servisse».
Per questo non ha mai intrapreso la carriera pianistica.
«Non credo di aver avuto le qualità, anche egocentriche, dell’interprete; mi piaceva sapere tutto di una composizione, di un artista e della sua storia. Col tempo scoprii di avere doti di divulgatore. E ora che sono vecchio si è accentuato il desiderio di ascoltare la musica in un modo un po’ diverso dal solito».
Ossia?
«Può sembrare una bizzarria, ma da qualche tempo leggendo uno spartito è come se rivivessi la musica non con l’orecchio ma con la mente. In quei momenti sento dentro di me sciogliersi una musicalità che sfiora l’assoluto. Ho l’impressione di avvicinarmi a ciò che l’artista ha inteso creare».
Intende dire che l’appaga ascoltare un brano senza
la presenza dell’interprete?
«Esattamente. Sono vecchio e l’orecchio non svolge più la funzione di una volta. E poi sono convinto che l’interprete sia diventato più un divo che un esecutore, e a me il divismo crea disagio».
Perché? In fondo Toscanini, Callas, Benedetti Michelangeli erano a loro modo dei divi, ma di grandezza assoluta.
«Il Novecento è stato il secolo del feticismo. I grandi interpreti musicali non si sono sottratti alla legge egotica del narcisismo. Trent’anni fa non avrei fatto un’affermazione così fastidiosamente categorica.
Provavo venerazione per l’ascolto, per i dischi di Toscanini che mio padre metteva sul vecchio grammofono, per il Falstaff diretto da Maazel o per Simon Boccanegra nella versione di Claudio Abbado. E ancora provo un’emozione profonda al ricordo della Sinfonia dei Salmi di Stravinskij diretta alla Scala da Leonard Bernstein. Fu un’esecuzione mirabile per la quale alla fine feci fatica ad alzarmi dalla poltrona. Ma con il tempo questi riti si sono impoveriti e gli interpreti sono diventati personaggi. Anzi, se me lo consente, delle maschere».
Cosa le provoca la parola “ascolto”?
«È una grande parola che attraversa tanto il mondo religioso, quanto quello letterario e musicale. Ma temo che oggi sia stata sostituita dalla parola distrazione. In senso tecnico ascoltare e udire sono la stessa cosa.
Musicalmente no. Musicalmente abbiamo due distinti percorsi. Sfogliavo qualche giorno fa Il mondo nell’orecchio di Ramòn Andrés, un musicologo intelligente e molto erudito. Mi colpiva l’affermazione che la sordità provoca un distacco dalla realtà e conseguentemente una forma di malinconia».
C’è un quadro di Albrecht Dürer, “Il sogno del dottore” dove questa tesi viene rappresentata.
«Tra i sintomi della malinconia, tema caro a Dürer, c’era anche il fischio, l’acufene, dice Andrés. E mi intriga l’intreccio tra medicina, suono e arte.
Nonostante fosse afflitto da sordità, Beethoven seppe darci la musica più bella. Il che mi riconduce all’idea che il suono più puro non sia quello fisico, ma mentale, o meglio interiore».
Ricordava la sua suonata a quattro mani eseguita con sua madre. Che ricordo ha di lei?
«La mamma era una Reichlin, radici svizzere trapiantate in Puglia, a Barletta. Suo fratello Pietro fu il padre di Alfredo Reichlin, mio cugino, che sarebbe diventato un importante dirigente del Pci».
Vi siete conosciuti, frequentati?
«Il solo momento in cui ci vedemmo con Alfredo fu nell’immediato dopoguerra. Venne a Milano, ospite per qualche tempo a casa nostra. Avevo 14 anni e lui sei più di me. Era un ragazzo affascinante, pieno di verve.
Incantò con i suoi discorsi i miei genitori. Ci parlò del periodo in cui si era imboscato in Vaticano e io lo immaginai vestito da prete».
Lo dice con una certa ironia.
«Mi sembrava una situazione strana».
Perché strana? Ricorda il libro di Enzo Forcella “La resistenza in convento”, dove si racconta come tra il 1943 e il ’44 molti politici e non, comunque antifascisti, furono protetti dal Vaticano che li accolse nei conventi?
«Strana perché in quei conventi finiva di tutto: monarchici, socialisti, comunisti e perfino i fascisti pentiti».
Cosa intende dire? In quel terribile anno di occupazione tedesca la gente veniva rastrellata, spesso torturata e fucilata.
«Alfredo non parlò mai del suo impegno nella Resistenza. Lo raccontò anni dopo, ma perché non dirlo anche a noi? Oltretutto mostrò un grande interesse per la classe operaia. Mi chiese di condurlo davanti a una fabbrica. E una mattina inforcando la bicicletta ci dirigemmo verso uno stabilimento nei pressi della Bicocca. A una certa ora vedemmo uscire le tute che allora non erano blu ma grigie. Pensavo che volesse parlare con alcuni degli operai. Ma, con mio grande stupore, si limitò a osservarli. Forse erano troppo diversi dal suo mondo, forse la timidezza ebbe il sopravvento. Da quei giorni non ci siamo più rivisti. Fu una sua decisione non frequentare dei parenti che presumo non ritenesse all’altezza del suo impegno ideologico».
Ma i suoi genitori erano stati fascisti?
«Neanche lontanamente. Mio padre faceva l’assicuratore e non ebbe mai la tessera fascista. Mia madre, Celeste Reichlin, era di ideali socialisti. Mia sorella Adriana era stata impegnata nel Cln».
E lei?
«Ero troppo piccolo. Frequentavo una scuola cattolica: l’Istituto Gonzaga, il cui direttore spirituale fu don Carlo Gnocchi. Riuscì a non farci vestire da balilla per le adunate del sabato. Ricordo un episodio che avvenne nel 1938 dopo la promulgazione delle leggi razziali. Don Carlo entrò in classe con un bambino che si chiamava Treves. Lo teneva per mano e ci disse che lui era uguale a noi e, per motivi che non poteva spiegarci, non poteva frequentare le scuole pubbliche: “è uno di noi”, rimarcò, “e lo tratterete come un compagno, come un vostro amico”. Lì, per la prima volta, intuii cosa volesse dire accogliere qualcuno in difficoltà».
Quel bambino ebreo che fine fece?
«La mia amicizia con Treves durò poco. Un giorno di primavera non si presentò più in classe. E nessuno di noi ebbe il coraggio di chiedere perché. Nessuno parlò. Neppure don Gnocchi. Quel silenzio forse era fatto per proteggerci da qualcosa di miserabile e più grande di noi. Avevo sette anni e affiorò in me un senso di rabbia, anzi di rancore, sia pure piccolo, verso un uomo che consideravo illuminato e giusto».
C’è ancora rabbia?
«No, quella delusione oggi la interpreto come il frutto di una necessità. Chi ero io per poter giudicare quel silenzio? Oggi che la vecchiaia avanza mi pare tutto più chiaro. Anche se non ho mai saputo che fine abbia fatto il giovane Treves».
Lei ha insegnato e scritto libri, oggi che fa?
«La mia grande passione è stata catalogare ogni cosa del mondo musicale. La mia mente sembra predisposta per questo tipo di operazione. Ho scritto dizionari musicali dedicati a Verdi e a Rossini. Fu lo zio Angelo a spiegarmi l’arte di consultare un dizionario, utilizzando i volumi dell’Enciclopedia Treccani che aveva in casa.
Angelo era anche un formidabile raccontatore di barzellette. Ne aveva un repertorio contro il Duce. Una volta in treno cominciò a raccontarne a uno sconosciuto e quando giunsero alla stazione quello lo fece arrestare per attività antifascista. Si fece 15 giorni a San Vittore e uscì grazie allo zio Pietro, padre di Alfredo e avvocato, le cui aderenze con il regime servirono ad abbreviargli il soggiorno. Con lo zio Angelo alcune sere ascoltavamo Radio Londra. Aspettavamo che qualcosa accadesse e poi venne il giorno in cui qualcosa davvero accadde».
Lei era un adolescente, ma cosa provò alla caduta del fascismo?
«Non mi ricordo lo stato d’animo. So che ero a letto quando mia sorella mi svegliò per dirmi che il fascismo era caduto. Quella notte ci furono manifestazioni di giubilo in piazza Duomo. Invece quello che notai la mattina dopo era lo sguardo vuoto di mia madre. Per vent’anni aveva atteso quel momento e mi sembrò delusa».
Perché?
«Forse perché una grande tragedia ha bisogno di un gran finale, perché il male quando viene sconfitto pretende che il bene trionfi in modo eclatante. E invece in quella circostanza vedevo mia madre seduta sulla poltrona e con la mano faceva ruotare un anello di legno. Sembrava assente: tutto finiva nel nulla come dal nulla quella storia miserabile era cominciata. La sola cosa che desiderai fu di farmi contagiare dalla dolente tristezza della sua felicità. La stessa che ora, vecchio, mi sforzo di provare davanti ai cosiddetti grandi cambiamenti. Prima mi chiedeva che faccio oggi. Provo a organizzare l’ultimo scampolo di questa solitudine».
In che modo?
«Creando un argine tra i ricordi meno gradevoli e il presente che comunque mi avvolge. Mia moglie è scomparsa due anni fa, i miei due figli fisicamente sono lontani, anche mio fratello e mia sorella scomparsi. Tra i compiti che mi sono assegnato c’è quello di mettere la mia vasta biblioteca a disposizione di chi desideri consultarla. L’ho appena messa in Rete. Il bisogno di catalogare non mi abbandona neppure ora che ho novant’anni! Forse è una mania che non mi lascia. Forse è la sola fede che sento come fede nella ragione».
E Dio?
«Non ci credo e non ho traffici con l’aldilà. Perciò conto di non andarci. Quello che ho potuto fare l’ho fatto qui. Il mio viaggio inizia e finisce tra le cose del mondo».