Lei scrive: “Quando ho consegnato la sceneggiatura, è stata accettata senza richieste di cambiamenti, e i produttori hanno trovato in breve i soldi per finanziare il film. L’ultima volta che ho visto Luca a New York, scherzavamo su quello che sarebbe potuto accadere se avessimo avuto un disaccordo. Poi all’improvviso sono stato scaricato senza che nessuno mi dicesse qualcosa”. Cosa ritiene sia successo?
«Sul momento sono rimasto male, ma penso che sia stata una decisione della produttrice francese, che si deve esser chiesta “e se poi litigano? Meglio evitare problemi”. Ha puntato sul più giovane. Può essere che anche Luca lo abbia pensato, il risultato è che ha diretto da solo».
Ne avete più parlato?
«Ci siamo visti a Cannes quando hanno presentato la versione restaurata di Casa Howard. Diciamo che preferisco non dimenticare le cose belle della nostra amicizia».
Lei scrive: “La panoramica pudica di Luca Guadagnino su una finestra verso alberi per nulla interessanti mentre i due ragazzi sono a letto conclude in maniera blanda la sequenza in cui fanno l’amore”. Nel suo cinema, Guadagnino non ha mai avuto timore di mostrare nudità: è evidente che si tratta di una scelta estetica.
«Non lo metto in dubbio, ma sono certo che se avessi diretto il film insieme a lui avremmo trovato una soluzione che avrebbe soddisfatto maggiormente gli spettatori in un momento che stavano tutti aspettando. Entrambi non abbiamo mai avuto remore nel mostrare nudità e scene di sesso, e sono stati gli agenti a fare pressione sugli attori perché non si mostrassero nudi».
Nel libro lei racconta la sua infanzia privilegiata.
«Sono tutti colpiti dal fatto che racconto di quando giravo in limousine da bambino insieme a mia madre, come se fossi stato l’unico al mondo, ma pochi si chiedono come questo privilegio abbia influenzato la mia personalità e il mio cinema».
Ce lo vuole dire lei?
«Credo che mi abbia dato l’opportunità di vedere il mondo in maniera diversa: un angolo certamente privilegiato, ma proprio per questo anomalo e, credo, interessante».
C’è chi la identifica nel perfezionismo di Stevens, il maggiordomo di “Quel che resta del giorno”.
«È un paragone che mi offende: è un uomo che castra i propri sentimenti ed è al servizio di un idiota filonazista».
Quale è il film nel quale si identifica maggiormente?
« Mr. e Mrs Bridges: racconta situazioni e luoghi che ho conosciuto da vicino ed è molto autobiografico. Paul Newman, Joanne Woodward ed io eravamo i più anziani sul set, e nessun altro sembrava sapere nulla di quel mondo. È un film al quale sono particolarmente legato anche perché è stato tra i pochi nei quali ho potuto fare qualche settimana di prove prima di girare».
Lei scrive che un regista non è un creatore ma “un’ostetrica.”
«Specie per quanto riguarda un interprete, il nostro lavoro è quello di far venire al mondo il bambino che non sapeva di avere dentro di sé».
Racconta molti incontri inaspettati, come ad esempio con il principe Carlo e J. D. Salinger, ma anche, e con dovizia di particolari erotici, molti suoi amanti, tra i quali Bruce Chatwin.
«Sono arrivato a un’età in cui mi posso permettere di raccontare quello che mi fa piacere e non nascondere nulla».
Ci sono personalità che la hanno colpita in maniera inaspettata?
«Mi viene in mente Raquel Welch, che non è stata un’amante: è pronta a combattere con chiunque per qualunque motivo. Ma le persone che hanno segnato la mia esistenza e non hanno mai smesso di sorprendermi nella quotidianità sono certamente Ismail Merchant e Ruth Prawer Jhabvala».
Lei dedica molte pagine a Jean Renoir e Satyajit Ray.
«Sono due grandissimi maestri che ho avuto il privilegio di conoscere e che mi hanno influenzato enormemente, anche se in maniera intangibile. Incontrando Renoir ho capito perché era tra i pochi maestri del passato venerato dai registi della Nouvelle Vague, mentre ho voluto conoscere Ray dopo aver visto la trilogia di Apu. Ero in India e trovai il suo numero sull’elenco telefonico: fu gentilissimo e mi invitò a trovarlo sul set di Tre figlie. All’epoca avevo realizzato soltanto documentari e rimasi affascinato da come dirigeva gli attori. Capii subito che la mia strada era quella del cinema di finzione e ancora adesso so che quella grande emozione ha forgiato tutto il mio lavoro, così diverso da ogni punto di vista. La vera arte riesce a superare ogni barriera culturale».