Robinson, 13 novembre 2021
Nuove cronache di Carrère dal processo sul Bataclan
1. Ma così non stiamo un po’ troppo sui fatti?»
Si dice «processo degli attentati» o «processo del terrorismo», ma sono parole che non significano nulla: un processo è un processo agli imputati, e ora ci siamo arrivati. Per cinque settimane abbiamo ascoltato i racconti atroci e strazianti di circa 250 vittime, e a volte volgevamo lo sguardo verso la gabbia degli imputati chiedendoci che cosa potessero provare quei quattordici uomini in tuta che dietro il riflesso del vetro si guardavano le scarpe da ginnastica, aspettando che finisse, immagino. Poi è arrivato il loro turno, per una settimana. È poco, una settimana, ma si tratta semplicemente degli interrogatori cosiddetti «di personalità». Per i «fatti», si vedrà a gennaio, e anche per la religione, considerata il primo passo verso i fatti. Il divieto di parlare della religione e dei fatti, in questa fase, è giustificato dall’architettura del processo, ma fa comunque venire in mente la barzelletta del tizio che comincia una psicanalisi dicendo «Sono pronto a parlare di tutto tranne che della mia vita privata». Dopo una giornata di udienze, tutti hanno interiorizzato l’arbitrarietà di questo metodo e i suoi effetti a tratti comici. Se si parla della passione di un imputato per i viaggi, si ha il diritto di dire che è andato in Spagna o in Inghilterra, ma in Egitto no, perché così ci si avvicinerebbe alla Siria, quindi ai fatti. Un altro imputato, messo in difficoltà da una domanda di uno dei sostituti procuratori, può rispondere: «Ma così non stiamo un po’ troppo sui fatti?». Risate in sala, sorriso indulgente del presidente, il sostituto procuratore batte in ritirata: ben giocata. Così si parla del prima (infanzia, fratelli e sorelle, studi, amori, eventuali professioni…) e del dopo (condotta in prigione), e almeno per quanto riguarda il prima gli imputati danno l’impressione di essere dei bravi ragazzi un po’ sbandati, moderatamente religiosi (anche se qui stiamo sfiorando i fatti e i loro avvocati cercano ogni volta di rimarcarlo), smoderatamente dediti all’hascisc (o all’erba, sfumatura che il presidente del tribunale padroneggia sempre meglio), entrando e uscendo di prigione al ritmo rassicurante della piccola criminalità. «Non siamo mica usciti dalla pancia delle nostre madri con il Kalashnikov in mano», ha detto Mohamed Abrini. Perfino Salah Abdeslam, la vedette del processo, che nei primi giorni si è prodotto in diverse uscite per così dire intempestive, ha l’aria di uno che sta sostenendo un colloquio di lavoro e cerca di minimizzare i problemi con la polizia che ha avuto da ragazzo: educato, sorridente quanto basta, e tutti gli sono riconoscenti di accettare di giocare al gioco quando in fondo non ha nulla da guadagnarci né da perderci.
2. Delinquenti terroristi, delinquenti e basta
Dal momento che gli autori del massacro sono tutti morti, gli imputati, per definizione, sono semplicemente dei complici, ma il grado di complicità è ben diverso. In cima alla catena c’è Salah Abdeslam, che faceva parte del commando, che avrebbe dovuto farsi saltare in aria come suo fratello Brahim e che potrà dirci soltanto lui se si è astenuto dal farlo perché la sua cintura esplosiva era difettosa o perché ha avuto paura, o perché all’ultimo minuto ha pensato che non fosse giusto quello che si apprestava a fare. Questo tardivo scrupolo morale, se fosse accertato, potrebbe giocare a suo favore, ma non gli impedirà di trascorrere in prigione, se non il resto della sua vita lunghi, lunghissimi anni. E in fondo alla catena ci sono alcuni delinquentelli i cui avvocati possono ragionevolmente pensare di riuscire a dimostrare che hanno partecipato all’attentato, sì, ma per una fortuita coincidenza e senza esserne realmente consapevoli. È qui che si gioca tutto, infatti: chi sapeva che cosa? Le persone che hanno noleggiato un’automobile o un appartamento lo hanno fatto credendo di fornire ausilio a qualche audace intrallazzo non troppo legale o per apportare con cognizione di causa il loro piccolo contributo al massacro di 130 persone (131, se si conta Guillaume Valette, il sopravvissuto del Bataclan che si è impiccato dopo due anni di discesa agli inferi psichica, nda)? Quello che hanno fatto, dal punto di vista giuridico, è classificabile come associazione a delinquere o associazione a delinquere con finalità di terrorismo? Nel primo caso, non è così grave e potrebbe perfino, se è in prigione da sei anni, uscire libero. Nel secondo caso, si prenderà il massimo della pena, comunque vada.
3. Kamikaz
In prigione, Salah Abdeslam giocava a scacchi, ma ha lasciato perdere quando ha scoperto che era vietato dal Corano. Sui banchi della stampa ci siamo tutti precipitati sui nostri telefonini per verificare se era vero: non è vero. Il profeta vieta soltanto i giochi d’azzardo, e gli scacchi non rientrano certo in questa categoria. È il gran muftì dell’Arabia Saudita che li ha dichiarati haram, perché fanno perdere tempo e denaro e provocano odio fra i giocatori. Odio non direi, ma quello a cui stiamo assistendo nel corso di questi primi interrogatori assomiglia molto all’inizio di una partita di scacchi, quando i giocatori spingono avanti i primi pedoni già con un’idea in testa. La regola è che ogni imputato viene interrogato in successione dal presidente del tribunale e dalle altre due componenti del collegio giudicante, che hanno cura di rimanere neutri e tecnici nelle loro domande, quindi dai tre sostituti procuratori (giovani, brillanti, incisivi), dagli avvocati delle parti civili (che in questo momento del processo non hanno nessuna rilevanza) e infine dai suoi avvocati. La partita, in realtà, si gioca fra i sostituti procuratori, che vogliono dimostrare che l’imputato è colpevole di associazione per delinquere con finalità terroristiche, e gli avvocati della difesa, che dicono che sono dei delinquenti e basta. Il motivo di certi battibecchi fra le parti ci sfugge. Per esempio, si è discusso lungamente per appurare se Yassine Atar fosse o meno soprannominato Yass. I sostituti procuratori, avendo letto tutti gli sms del suo cellulare, ne hanno trovati parecchi in cui viene chiamato Yass. Lui sottolinea che ce ne sono molti di più in cui non viene chiamato Yass. Si difende forsennatamente su questo punto e fa bene, perché, mi dice un confratello più edotto di me sul dossier, nel computer ritrovato in un bidone della spazzatura di Bruxelles dopo gli attentati del 22 marzo 2016 si parla più volte di un certo Yass e questa storia di soprannomi all’apparenza anodina in realtà è l’unico punto rilevante dell’interrogatorio, quello che farà pendere da un lato o dall’altro la sorte di Yassine Atar. Un po’ più tardi, è la volta di Mohamed Amri, che la notte della carneficina, insieme a Hamza Attou, andò a cercare Salah Abdeslam a Parigi per riportarlo a Bruxelles. I suoi avvocati, Negar Haeri e Xavier Nogueras, muovono i loro pedoni nella speranza di dimostrare, più avanti nel corso del processo, che non sapeva bene quello che stava facendo, che era andato a Parigi per tirare fuori il suo amico da una storia di macchine rubate o di droga, certo non un attentato terroristico, e che quello che lo aveva trattenuto dal denunciare Abdeslam quando aveva capito da cosa stava tornando non era la solidarietà jihadista, ma semplicemente il codice morale dei perdigiorno di Molenbeek: qualunque cosa abbia fatto un amico, non vai mai a denunciarlo. A colpi di domandine mirate, Haeri mette in chiaro: 1) che il suo cliente è servizievole e leale, uno su cui si può contare; 2) che gli piace molto guidare la macchina e che è sempre sballato perché si fuma il primo cannone la mattina appena si sveglia, cosa che, chiaramente, altera un po’ la sua capacità di discernimento. A quel punto il suo collega Nogueras raccoglie il testimone e muove un altro pedone chiedendo al suo cliente se oltre a essere servizievole, leale e avere l’abitudine di guidare la macchina fumato, ami farlo ascoltando della musica. È evidente dove vuole andare a parare: i musulmani integralisti hanno diritto di giocare agli scacchi, contrariamente a quello che pensa Abdeslam, ma non di ascoltare musica. «Sì, sì», conferma Amri, «ascolto musica». «Che musica?». «Rap». «Quali gruppi?», insiste Nogueras per ficcarci bene in testa che è proprio così, che ascolta veramente musica. «Be’», dice candidamente Amri, «i Kamikaz».
La partita è appena cominciata.
(Traduzione di Fabio Galimberti)