Robinson, 13 novembre 2021
Elena Ferrante racconta come ha iniziato a scrivere
Un professore che stimavo molto — gli attribuivo grande autorità — mi chiamò una mattina in disparte e mi chiese con i toni accattivanti dell’adulto comprensivo: «Perché ti comporti così, com’è che non studi più, che cosa vuoi fare della tua vita?».
Risposi, solo perché mi incalzava: «Voglio scrivere». «Scrivere cosa?». «Racconti». Mi guardò in un modo che m’è rimasto impresso per sempre, come se gli avessi mancato di rispetto: «Racconti? E con quale faccia tu, a tredici anni, mi vieni a dire: non studio perché voglio scrivere racconti? Spiegami: con quale faccia».
Non gli spiegai niente, feci invece una cosa molto stupida: mi misi a piangere.
Sono passati parecchi decenni da allora. Questa storiella è sbiadita, non ricordo granché di quell’uomo, e in verità nemmeno le parole esatte che mi disse, a parte la certezza che usò proprio quell’espressione: con quale faccia. Era un bravo insegnante, ci parlava di poesia con una passione che mi stordiva. Leggeva spesso versi d’amore e durante la lettura sudava, forse per un eccesso di partecipazione. Quando mi misi a piangere si turbò, seppellì rapidamente il tono di indignata irrisione sotto balbettii concilianti, e in seguito non accennò mai più, nemmeno per prendermi in giro, alla confidenza che gli avevo fatto.
Restai con la mia ferita. Avevo tredici anni e per un cospicuo numero di motivi che qui è inessenziale elencare volevo davvero smettere di studiare e dedicare tutto il mio tempo a scrivere. Mi aspettavo da quel professore lodi e consigli incoraggianti, invece lui mi aveva trattata come se quella mia ambizione fosse una gravissima colpa. Giurai che non avrei scritto mai più. Ero umiliata e furibonda, disperata e feroce. Nascosi in qualche angolo del cervello la vergogna di essere stata presuntuosa e lo spavento per la reazione scomposta di un adulto che pareva assennato e stimabile. Ma non riuscii a calmarmi. Credevo di aver enunciato un proponimento encomiabile; perché allora lui, che pure stava svolgendo il suo compito di insegnante sensibile, attento ai suoi allievi, aveva avuto quel mutamento sgradevolissimo?
L’anno seguente andai al liceo e il professore lo cancellai. Però tutte le volte che quell’episodio mi tornava in mente pensavo: sembrava una brava persona ma non lo era. E se risentivo il disprezzo con cui mi aveva trattata, rifacevo tra me e me la sua voce ridicolizzando il suo modo rozzo — altro che cultore di poesia — di esprimersi. Con che faccia — mi aveva detto — un’espressione assurda: ci vuole una faccia particolare per dire che si vuole scrivere? Volevo togliergli autorità e ci riuscii, mi aveva guastato il piacere di buttar giù storielle. Decisi che avrei ripreso a scrivere, però non l’avrei più detto a nessuno.
Senonché i piccoli eventi della nostra vita funzionano certe volte come testi che, col passare del tempo, sprigionano significati imprevisti. Di recente, ogni volta che per qualche motivo quel professore mi torna in mente ci ricamo su. Probabilmente era una persona con un’altissima opinione della letteratura. Forse era un insegnante molto colto, che aveva una lunga vecchia ambizione di scrittore. Più semplicemente ogni tanto me lo immagino come uno che sa cos’è l’eccellenza letteraria, conosce l’infelicità di chi si è scoperto non all’altezza della sua stessa finissima passione, e quando vede che la bambina che ha davanti sta per mettere precocemente a rischio, senza alcuna consapevolezza, l’intera sua vita, prova fastidio, rabbia e pena e apprensione e affetto e gelosia, un impasto disomogeneo di sentimenti che lo fa agire d’istinto in modo eccessivo — «attenzione, piccola stupida, la letteratura è una cosa seria, io lo so come stanno le cose, lascia perdere», — come se per tirarla via da un pericolo mettesse troppa forza e le spezzasse un braccio e una gamba.
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Nascosi in qualche angolo del cervello la vergogna di essere stata presuntuosa e lo spavento per la reazione scomposta di un adulto che pareva assennato e stimabile Ma non riuscii a calmarmi. Insomma — a volte penso — quell’uomo, mentre stava pacatamente recitando la sua parte di insegnante disponibile, finì in un garbuglio di quelli che oggi so riconoscere abbastanza bene. Mi riferisco a quei piccoli e grandi momenti — nella nostra vita — in cui l’ordine che ci siamo assegnati ribolle, e i pezzi eterogenei di cui siamo fatti — mai veramente connessi — si urtano e vanno in mille minuscole scaglie come le onde quando s’azzuffano e schiumano, riducendoci per un minuto, per giorni, anche per anni, alla cosa arruffata, sempre debordante, che veramente siamo. Il mio insegnante, con tutta probabilità, mi investì con il suo improvviso disordine e nei pochi secondi in cui, davanti ai miei occhi, si sformò ( « Racconti? E con quale faccia, tu, a tredici anni, mi vieni a dire: non studio perché voglio scrivere racconti? Spiegami: con quale faccia? » ), mi fece male fino a sformare anche me.
A tredici anni mi spaventai, e in genere la perdita brusca, per pochi secondi, della vecchia apparente coesione, l’insorgere in me come negli altri dell’incoerenza, seguita tuttora a spaventarmi. Ma poi sono cresciuta e di quei momenti ne ho visti altri, e altri ancora mi sono tornati in mente, fino a diventare il mio nutrimento di autrice, tanto che devo a loro se mi è sembrato di avere qualche ragione per scrivere. Da lì tutto sommato è venuto il realismo sdrucciolevole, franoso, delle mie storie, i personaggi femminili mai al sicuro dentro le corazze che si sono costruite, la figura di Lila, soprattutto, e le sue smarginature. Sicché oggi un po’ mi diverte credere che il modo secondo cui quell’uomo assestò un duro colpo ai precocissimi sogni di gloria del mio io scribacchino, spingendolo a vergognarsi e a rintanarsi, è anche una scheggia non irrilevante di ciò che col tempo mi ha indotta a ricacciare fuori la testa e scrivere.
Duro colpo, poi, non voglio esagerare: anche questa espressione mi sembra da riesaminare. Oggi credo che tutto sommato quell’uomo, più che aggredirmi, abbia cercato confusamente, crudelmente, di proteggermi e che io, da quell’episodio, abbia imparato più di quanto sia disposta ad ammettere. Soprattutto sono abbastanza sicura che, con quella sua impennata, volesse indurmi alla prudenza. Vacci coi piedi di piombo, amica mia. Se ami davvero la letteratura, se è la ragione della tua vita, non puoi non sapere che scrivere è un gioco d’azzardo e che rarissimamente si vince. Peggio ancora: anche se ti pare di aver vinto, non c’è nessuna garanzia che tu abbia vinto sul serio, non il successo di critica, non di pubblico, non una corona d’alloro. Una poesia, un romanzo, un racconto sono colpi di dado e per quanto tutto il corpo si concentri nel lancio, per quanto assommi in sé con molto studio tutta l’energia e tutta la perizia letteraria stipata nelle biblioteche, il lancio deve fare i conti con la fortuna. Perciò niente superbia, ragazzina, sta’ buona, non presumere di te. L’azzardo dello scrivere riusciva raramente già quando i libri parevano scritti in cielo e, a scrivere testi meravigliosi, bastava uno scriba veloce che scarabocchiasse ordinatamente del vivo e del morto, del soggetto e dell’oggetto, del dentro e del fuori, dell’umano e del non umano, senza perdersi nemmeno uno dei bisbigli divini. Figurati adesso che nessun dio fiata se non per soffiare sul fuoco della nostra ferocia e ci sentiamo dentro un vortice di detriti. No, no, attenta alla malia dell’alfabeto. La paura dell’altro ( la materia di ogni possibile racconto) prevale sulla curiosità per l’altro ( la spinta a ogni possibile racconto), e tendiamo a chiuderci nei nostri miserabili confini e fortilizi. La concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, le disuguaglianze, i razzismi, le sopraffazioni in nome del giusto modo di stare al mondo, le guerre, la violenza sulle donne e i bambini, il pianeta maltrattato che di conseguenza diventa sempre più inospitale, rischiano di essere solo temi da svolgere con letteraria eleganza per conto dell’industria culturale. La letteratura invece non svolge temi, la letteratura crea mondi, e più vivi di quelli dentro cui siamo crudelmente ingabbiati dalla nascita alla morte. Prudenza, dunque, piccola spudorata, prudenza.
Un’eco di questo invito — credo adesso — dovette arrivarmi già mentre scoppiavo a piangere di fronte a quell’omone, ora mi ricordo, sempre ben rasato, un po’ calvo. L’umiliazione fece breccia e in seguito, malgrado le smargiassate della gioventù, sono stata davvero molto prudente. Non ho creduto, per esempio, alla convenzione che abbiamo un unico volto e che quel volto è la nostra identità. Siamo organismi mutevoli e il viso non è la nostra componente più stabile. Perciò mi sono tenuta le mie venti facce quotidiane, utili per vivere pienamente la mia vita. Le ho esibite a seconda delle funzioni sia pubbliche che private, e intanto ho lasciato rigorosamente in disparte, senza assegnargli nemmeno una smorfia, questo mio io che scrive, l’io femminile che fa ginnastica quotidiana con la parola scritta e ogni tanto si illude di far bene e poi ammette di aver preso un abbaglio e si deprime e riprova. Temevo che, a dargli una faccia, a questo superbo perdigiorno, qualcuno mi avrebbe presto fatto la stessa domanda spregiativa del professore? Sì. Ero atterrita dal fallimento e non volevo che mi fosse rinfacciato? Sì. Mi sentivo, in quanto femmina, costituzionalmente incapace di ottenere buoni risultati, cosa che non ho mai del tutto escluso che pensasse anche il mio professore all’epoca in cui mi si rivolse a quel modo indignato? Sì. Ma soprattutto ha contato l’idea che meno mi lasciavo determinare da un’immagine, da un ruolo, dalla scrittura come professione e quindi presenza, più sarei stata libera di tentare e sbagliare e tentare di nuovo e sbagliare di nuovo, senza la minaccia — il ricatto — di perdere (o vendermi) la faccia.
Oggi abbiamo bisogno più che mai di strapparci a noi stessi, ad artificiose e abusatissime identità, e sentire tutto il peso, tutta la responsabilità di scrivere dell’altro, di esseri umani e non umani, di pietre, di piante, del brutto e del bello, del bello che è brutto e del brutto che è bello, sconfinando, disaggregando, aggregando, inventando. L’unica faccia possibile dell’io che scrive — muscoli, vene, nervi — è quella materialissima dei testi che nel tempo la mano è andata componendo, parola dietro parola. Quei testi sono ciò che permane — il corpus — di una funzione estremamente instabile: oggi l’io che scrive c’è, domani no; oggi ha talento, domani lo perde; oggi si monta la testa, domani se la smonta, o è un professore — il mondo, — a smontargliela.