Gaia Piccardi per “7” - https://www.corriere.it/sette/, 13 novembre 2021
“IL TRASFERIMENTO A MONTECARLO? UNA SCELTA DI CARRIERA. NON HO NULLA DA NASCONDERE, HO DECISO DI TRASFERIRMI DOVE POSSO ALLENARMI SEMPRE ALL’APERTO” (NON CHE A ROMA CI SIA UN CLIMA POLARE) – A TUTTO BERRETTINI: "SONO IMPIETOSO CON ME STESSO. UNA VOLTA MI SONO DATO DEL COGLIONE PER 4 GIORNI” - ROMA? NON LA RICONOSCO PIÙ: SE VEDO UNA CARTA PER TERRA, SBROCCO" - L'AMORE: “ERO CONVINTO CHE MI PIACESSERO LE BIONDE E MI RITROVO CON UNA MORA. IO HO LA CAPOCCIA DURA, MA AJLA PIÙ DI ME, PAZZESCO...” - LA PROFEZIA DI PANATTA, LA SORPRESA DI VERDONE -
Dentro uno spogliatoio affacciato sul mare, dove la storia del tennis ha lavato via sotto la doccia la fatica di decenni di match impolverati di terra rossa, Matteo Berrettini racconta la sua. A 25 anni è necessariamente una storia incompleta, ancora tutta da scrivere.
Però indizi e sensazioni conducono verso un esemplare di tennista che in Italia non avevamo mai avuto. Lo sparo del servizio che piove da un’altitudine di 196 centimetri, la quota d’alta montagna degli sportivi doc di ultima generazione. Il dritto che fa i buchi nel campo e scava la differenza con gli avversari. Una maturità ben oltre l’età anagrafica, imprinting felice di mamma Claudia e papà Luca, plasmata dai passaggi di crescita obbligati di una vita da globetrotter iniziata da bambino.
Ma soprattutto l’impressione che Matteo, romano del Nuovo Salario fedelissimo alla trimurti Carlo Verdone/ Adriano Panatta/pasta alla gricia però non a Francesco Totti e alla Roma (colpa del nonno paterno di Firenze, Piero, tifoso viola), non perda mai di vista, ma proprio mai, nemmeno nei momenti di difficoltà o scoramento, la consapevolezza di essere un gran bravo ragazzo prima che un campione: «Sono contento che il vero Matteo stia uscendo e sia visibile, perché io sono un tipo che tende a tenersi tutto dentro. Far venire fuori chi sono è la mia nuova forza: prima viene l’uomo, poi il tennista».
È l’umanità di questo gladiatore moderno e gentile, che sbarca sul palcoscenico delle Atp Finals e della Davis a Torino con due titoli stagionali (Belgrado sulla terra e il Queen’s sull’erba), una strepitosa finale a Wimbledon contro il mostruoso Djokovic 61 anni dopo l’ultimo italiano approdato in semifinale (Nicola Pietrangeli, correva il 1960) e il n.7 della classifica mondiale in valigia, il valore aggiunto di Berrettini, la qualità che nemmeno la barbetta per sembrare più adulto e cattivo riesce a celare. Su un playground di campioni inseguiti dai grandi marchi del lusso, chiamati ad esporsi per cause nobili che non sempre hanno l’ardire di abbracciare motu proprio (vedi la Nazionale di calcio all’Europeo),
Matteo è il testimonial di un’italianità poliglotta e cosmopolita, è il romano a cui Roma - la città - non manca; forse non sarà l’esperienza religiosa che David Foster Wallace attribuiva alla luminosità dei colpi di Roger Federer ma sa essere, a suo modo, rassicurante. In campo, con una costanza di rendimento consolidata nelle ultime tre stagioni, e fuori. Il figlio che vorresti avere avuto, il fidanzato che sogni per tua figlia. «Vincenzo Santopadre, mio allenatore da quando avevo 14 anni, mi ha cresciuto in questo modo. Se sono così, è perché la mia famiglia è così. Il mental coach ha scoperto la mia anima prima di me, ma pian piano ci sto arrivando anch’io. Oltre ai dritti e ai rovesci, metto in campo chi sono. La vita vera è fuori dal tennis».
Se Panatta l’ha battezzato («Tu da grande tirerai il servizio a duecento all’ora» pronosticò a baby Berrettini) e Verdone l’ha sorpreso facendosi trovare a bordo campo al Circolo Canottieri Aniene, la collega Ajla Tomljanovic è la donna che ama: «Ha un animo buono, direi addirittura puro, che ho scoperto per gradi.
Per sua educazione e cultura, aveva messo su una scorza: mi ha intrigato partire alla ricerca, andare oltre. E quello che ho trovato mi ha colpito». Non è un caso che la prima finale Slam di Berrettini sia arrivata lo scorso luglio a Wimbledon, luogo di tradizioni, riti, simboli. L’ordine mentale di Matteo è ancorato a punti fissi e personalissime icone. Ed è da qui, dalla pulizia interiore che deve mettere in fila le mille combinazioni caotiche di un incontro di tennis, che cominciamo questo match.
Matteo, si racconti attraverso i suoi oggetti e i suoi simboli. «Il più importante è la rosa dei venti, il pendaglio che porto al collo, regalo di mia madre per un compleanno: è un ciondolo troppo lungo per giocarci, quando entro in campo lo appoggio sulla panchina, è un modo per portare la mia famiglia sempre con me. Mi ricorda da dove sono partito: i primi tornei, le prime trasferte, le prime gioie e delusioni.
E poi i punti cardinali sono fondamentali: mi aiutano a non perdere la bussola. Tanto che me li sono tatuati sul bicipite insieme alla data di nascita di Jacopo, mio fratello, e a un portafortuna brasiliano, l’equivalente del nostro cornetto rosso. Me l’ha fatto conoscere nonna Lucia, la mamma di mamma, che vive a Roma ma è nata in Brasile».
Collane e anelli come aggancio alla vita vera. «Mi piacciono. La loro estetica mi appaga. L’anello a cui sono più legato me l’ha regalato Ajla, la mia ragazza australiana, tennista come me: ha valore anche perché dentro c’è incisa una data importante». È un grande amore. «È una storia importante, sì. Ero convinto che mi piacessero le bionde e mi ritrovo con una mora... Credo di essere in grado di amare in maniera forte, di essere intenso come in tutte le cose che faccio. Do tanto, chiedo altrettanto. Mi piace condividere, costruire il rapporto, cercare una profondità».
Se le relazioni sono uno specchio riflesso, lei cosa vede in Ajla? «La mia testardaggine. Io ho la capoccia dura, ma Ajla più di me, pazzesco... A un certo punto la relazione è diventata un testa a testa. Lì ti scontri, oppure molli qualcosa. Ecco, l’amore mi ha fatto diventare più paziente: correvo a perdifiato con il rischio di non godermi niente e ho rallentato, ho visto le cose con una prospettiva più ampia, ho lasciato evaporare un po’ della mia impulsività. Prima era tutto bianco o nero. Ho scoperto il grigio, e mi piace».
E lei cosa restituisce in cambio, di sé, ad Ajla? «La mia presenza, spero. Per la vita che facciamo non ci vediamo molto, e quel poco va maneggiato con cura. Ajla era con me nella bolla anti Covid di Wimbledon dove, prima volta di un tennista italiano, sono arrivato in finale. Ma non ci sono solo Wimbledon, i bei tornei e le vacanze. Ci sono gli scontri, i momenti difficili. Prima li affrontavo con gravità, ora mi dico che se andiamo a mangiarci una pizza, magari, il nodo si scioglie prima».
Ha mai avuto un amore sbagliato? «È successo che mi abbia fatto stare male il fatto di non essere più innamorato: è bruttissimo spezzare il cuore a una ragazza. Scelta mia, ma sofferta».
Tutti hanno un lato oscuro. Qual è il suo? «Non credo di avere maschere spesse. Credo di essere quello che sembro. Ci sono stati dei momenti, in passato, in cui non mi sono piaciuto: uscivo troppo, ero single e mi divertivo, trascurando il tennis. In generale ho una buona considerazione di me stesso, certo potrei essere migliore.
Una stupidaggine, che poi non lo è: mio fratello chiama tutti i giorni i miei genitori, io non lo faccio. Penso a mia madre e so quanto ci tiene. Non mi forzo, perché ne uscirebbe una telefonata innaturale. Però sono i miei, cazzarola, mi hanno dato tutto e io li amo immensamente. E falla, una telefonata in più, Mattè, mi dico. C’è stato un tempo in cui ho chiesto e preteso il mio spazio e a volte quello spazio diventa una distanza troppo larga. Colpa mia».
Un pregio e un difetto. «Sono impietoso con me stesso. Ma tanto, tanto, tanto. Faccio tutto io: mi rompo le palle da morire». È il pregio o il difetto? «Eh, bella domanda... Tenersi sotto pressione aiuta a migliorarsi però sono capace di non perdonarmi il minimo errore».
Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. «Qui a Montecarlo, lo scorso aprile, rientravo da un lungo stop per uno strappo agli addominali. Ho giocato e perso, senza lottare come mi ero ripromesso. Per quattro giorni mi sono insultato a morte per non essere stato quello che avrei voluto. Vincenzo, il coach, mi diceva: tranquillo, Matteo, è normale.
E io a darmi del coglione senza pietà. Però da questo atteggiamento è nata una stagione super: le vittorie, i quarti di finale a Parigi e New York, la finale a Wimbledon, le Atp Finals. La cosa bella è che, quando prendo una batosta, per quanto sia forte, reagisco positivamente. Rimbalzo quasi sempre all’insù».
Ha nominato suo fratello Jacopo, più giovane di tre anni. Il Berrettini destinato a diventare un campione, da bambini, sembrava lui. Ha sensi di colpa? «No, non mi pare. Se fossi numero due del mondo, l’unico tennista che vorrei davanti a me è Jacopo, una delle persone migliori che abbiano mai calpestato questo pianeta. Siamo cresciuti insieme, mi dispiaccio quando in questo ambiente c’è mancanza di sensibilità, quando la sua storia viene messa da parte, quando passano da lui per arrivare a me. Io sono fumino, impulsivo; lui è più morbido e riflessivo».
Cosa la fa ridere alle lacrime? «Verdone. Le sue facce. I dettagli. Il piedino nervoso in Maledetto il giorno che t’ho incontrato , quando manda una videocassetta alla moglie che lo ha lasciato facendo finta di avere un’altra donna, se la tira, fa il figo. Poi stoppa la telecamera e crolla miseramente. Come tutti noi uomini, quando facciamo i duri e invece vorremmo solo che quella brutta sensazione se ne andasse. Sono cresciuto con Verdone e De Sica, i suoi Cinepanettoni. Vacanze di Natale lo so a memoria». Ha citato due romani doc. Lei è un romano sui generis , però. «Lo ammetto. Tifo Fiorentina come il nonno, e non essere romanista o laziale, già questo, a Roma fa strano. A mia discolpa dico che me ne sono andato presto, le strade del tennis mi hanno portato in giro per il mondo, non vivo a Roma da molti anni. La città in sé non mi manca. È stupenda però non la riconosco più: se vedo una carta per terra, sbrocco. Roma si è lasciata troppo andare, e i romani con lei. Servirebbe più amor proprio, oltre che una miglior gestione. La plastica sulla strada del mare non è colpa del sindaco, ma di chi la butta».
Quindi non si vede un domani, con una famiglia, a Roma. «Non lo so. Io amo il caldo e gli inverni a Roma sono umidi. Non so nemmeno se mi vedo fisso in un posto. Mi piace che l’esistenza mi abbia portato in giro, che mi abbia costretto ad aprirmi al mondo, a cominciare dalla mia ragazza».
Le dispiace che la scelta di lasciare Roma per Montecarlo sia stata criticata? «Mi spiace che una scelta di carriera non sia stata capita. Non ho più legami professionali in Italia. Vivo undici mesi all’anno per tornei, ho deciso di trasferirmi in un posto dove posso allenarmi sempre all’aperto e dove vivono 15 dei migliori 20 tennisti del mondo. Non ho nulla da nascondere, sono sereno».
Cosa la fa piangere, invece? «I film drammatici, il messaggio che mi mandò l’anno scorso mia mamma per il compleanno: io ero in lockdown in Florida con Ajla e lei stava a Roma. Ho pianto per relazioni, rabbia, infortuni, delusione, gioia. Con un filino di alcol in corpo divento ancora più sentimentale! Nel 2019 avevo invitato alle Atp Finals, a cui mi ero qualificato all’ultimo dopo una stagione pazzesca, la famiglia e gli amici. Quando li ho visti al ristorante, tutti insieme, sono scoppiato in lacrime. Un bel momento».
Cosa la fa infuriare? «La violenza, di qualsiasi tipo. Se cogliessi in flagrante uno che lascia la cicca della sigaretta sulla spiaggia, potrei non rispondere di me».
Il suo lato sex symbol è uscito con l’exploit a Wimbledon. «A Indian Wells una tifosa mi fa: Matteo allenati senza maglietta, tanto fa caldo. Ho 25 anni, ci rido sopra. Ajla un po’ meno. Fa questo piccolo gesto, con la spalla che si avvicina all’orecchio, come se non gliene fregasse niente. Invece... Ma può stare tranquilla, lo sa».
Il suo mental coach, Stefano Massari, dice di lei: Matteo è capace di scavare dentro di sé finché non trova il cielo. Qual è il suo cielo, Berrettini? «Scavarmi dentro è una mia specialità. Scavandomi dentro sono diventato, partendo da zero, numero 7 del mondo. È così che trovo le motivazioni extra per fare un passo in più, migliorarmi, crescere. Ci credo veramente: prima o poi voglio alzare la coppa del primo posto di uno Slam, non del secondo».
Cercando il cielo, per strada ha incontrato la sua anima? «Parlare con Stefano mi fa bene, i miei pensieri l’hanno colpito da subito. La mia profondità l’ha scoperta prima lui di me, io mi aiuto scribacchiando, fermando le riflessioni sul tablet: se sento un’emozione forte, tipo rivedere Ajla a un torneo dopo una lunga separazione, la devo mettere giù. Sorrido pensando a quanto ero naif e ingenuo».
Jannik Sinner la incalza in classifica e ha 5 anni in meno di lei. L’avvicinamento del predestinato la preoccupa, in vista di un inevitabile derby? «Non mi preoccupa, mi stimola. E mi dà forza. Con Jannik c’è un buon rapporto e una sana rivalità, che farà bene ad entrambi».
È questa la vita che sognava da bambino? «Sognavo di diventare un professionista del tennis, cioè uno che vive della sua passione. Quello che non avevo considerato è tutto ciò che il ruolo porta con sé». A cosa si riferisce? «Alla sensazione di essere sempre alla rincorsa delle cose. Lo sport professionistico ti costringe a vivere a trecento all’ora, senza casa, sempre in albergo o in campo: faccio tanto però, a volte, mi sento come se in mano non stringessi niente. A questo senso di vuoto intermittente no, non pensavo da bambino».
Qual è la sua idea di felicità su questa terra, Matteo? «Stare bene con quello che ho. Da vecchio non credo che sarò il tipo nostalgico che passa le giornate a contare coppe e trofei. Lungo il percorso vedo una moglie, un figlio, una famiglia, una casa. Oggi lo sport ha il potere di rendere felici tante persone che mi circondano e io, spesso, sono felice se gli altri sono felici. Però poi mi ricordo il senso di pace che provo davanti al mare. E allora penso che la felicità sia un tramonto con Ajla e una birra in mano».