Il Messaggero, 13 novembre 2021
La battaglia del Piave
Ricorre oggi l’anniversario dell’inizio della prima battaglia del Piave. La linea del Fiume sacro alla Patria rappresenta, anche nel linguaggio comune, il simbolo dell’ultima possibilità nell’emergenza. In effetti, tra il 13 e il 26 novembre del 1917, il destino dell’Italia dipese anche dal rigonfiar le sponde di quel placido corso d’acqua, che scende dalle Alpi carniche e arriva all’Adriatico, a pochi chilometri da Venezia. Dietro trovarono riparo le nostre truppe reduci dalla disfatta di Caporetto. Tutto era iniziato il 24 ottobre quando un gruppo d’assalto tedesco, guidato da un tenente che sarebbe diventato un mito, Erwin Rommel, aveva aggirato le nostre linee, colto alle spalle i difensori, e seminato il panico che presto era diventato disordine, e infine una rotta. Trecentomila uomini tra morti e prigionieri e un immenso bottino di armi e viveri furono l’effetto immediato. Quello più duraturo furono un milione di profughi in fuga, l’arretramento del fronte di 150 Km., e una crisi politico- militare. I nostri Alleati temettero che il Paese chiedesse la pace.
La disastrosa ritirata avrebbe potuto concludersi con una catastrofe nazionale, come avvenne per i francesi, nel maggio del ’40, dopo lo sfondamento tedesco attraverso le Ardenne e l’aggiramento della linea Maginot da parte di Von Rundsedt. Invece gli italiani trovarono nella disfatta l’energia materiale e morale compromessa dalle inutili e sanguinose offensive dell’Isonzo, dalle logoranti trincee del Carso, e dalle spietate decimazioni di reggimenti ammutinati o semplicemente esausti.
L’EQUIPAGGIAMENTOMolti elementi contribuirono a questa ripresa. Prima di tutto il cambiamento dei vertici militari e del loro atteggiamento verso le truppe. Armando Diaz, nuovo comandante in capo, comprese che il soldato doveva essere nutrito, equipaggiato e sostenuto assai meglio di quanto avesse fatto il suo predecessore Luigi Cadorna, roccioso e ottuso generale della vecchia scuola. In secondo luogo l’accorciamento del fronte e delle linee di rifornimenti rendeva più facile una strategia difensiva assecondata dalle difese naturali del Piave e delle montagne adiacenti. E ancora, giovava la presenza di alcune divisioni francesi e inglesi, testimonianza di un’alleanza solida, fraterna e irreversibile. Ma più di tutto contava la consapevolezza che dietro quella linea non c’era più nulla, e che un nuovo sfondamento nemico avrebbe significato consegnare la Patria, le famiglie e i beni a un invasore di cui si erano dipinte, spesso esagerandole, le violenze crudeli e i saccheggi rapaci. I fantaccini che non capivano perché dovessero rischiare la vita per conquistare mezzo chilometro di terra pietrosa erano ora determinati a sacrificarla per impedire la conquista straniera. La retorica postbellica ha in parte compromesso questo sentimento dipingendolo come una sorta di eroismo estetizzante: la bella morte per un alto ideale. Non fu così, anche se non mancarono episodi di straordinario valore: ma fu una istintiva adesione del rude contadino al principio che se proprio non era meglio un giorno da leoni che cent’anni da pecora, la vita non vale nulla se è vissuta in umiliante schiavitù.
Così le nostre truppe, molte delle quali provenienti da reggimenti già puniti per codardia, opposero una resistenza accanita non solo lungo il Piave, ma anche sulle vette adiacenti, i cui nomi contraddistinguono una via in quasi tutte le città del Veneto: Monte Tomba, Monte Pertica e naturalmente Monte Grappa. Vicino a quest’ultimo accadde un fatto poco noto. Il gruppo comandato da Rommel diretto alla cima, sbagliò strada, probabilmente ingannato da un contadino, e l’attacco fallì. Nel dicembre del 1944, durante l’offensiva delle Ardenne, Fritz Bayerlein, comandante della sceltissima divisone corazzata Panzer Lehr, stava per entrare a Bastogne quando, anche qui fidandosi di un abitante del luogo, finì in direzione opposta. Poco dopo le Screaming Eagles del generale McAuliffe, consolidate le posizioni difensive, avrebbero reso la cittadina belga inespugnabile. I due episodi non saranno stati determinanti per l’esito della battaglia, ma costituiscono una singolare e significativa coincidenza.
FRANCESCO BARACCACosì la prima battaglia del Piave si concluse, come Dunkerque, con un ripiegamento finale ordinato e la ricostituzione di un fronte solido. Ma poiché, come avrebbe detto più di vent’anni dopo Churchill, wars are not won by evacuations, il nostro Alto Comando cominciò a pensare a un’offensiva. Era una concezione ardita, che richiedeva un tempo lungo, un addestramento nuovo e una produzione industriale adeguata. In questi due ultimi settori l’Italia fece miracoli, ma fu anticipata nel tempo. Nel giugno del 1918, infatti, gli austriaci scatenarono lungo lo stesso fiume, là dove costeggia la collina del Montello, la loro offensiva maggiore: quella che sarebbe stata chiamata la battaglia del Solstizio. Fu la più sanguinosa delle tre battaglie del Piave. Il nemico attraversò il fiume nei pressi di Nervesa, si insinuò lungo le prese del Montello, occupò molti dei valloncelli dove oggi crescono pregiati vitigni e per un attimo parve sul punto di dilagare nella pianura trevigiana. Ma Armando Diaz e i suoi generali, informati dei piani austriaci, avevano preso le precauzioni. Arrivarono rinforzi freschi, vi furono combattimenti alla baionetta brutali, accompagnati – come in tutte le guerre – da episodi di generosa cavalleria e di ripugnante atrocità. Nervesa fu distrutta ma riconquistata, e gli assalitori ricacciati con gravissime e irreparabili perdite. Tra le vittime vi fu il nostro Francesco Baracca, che mitragliava a volo radente e fu abbattuto, pare, da una fucilata.
LA FINE DELLA GUERRAPer un poco il Piave riposò. Tra luglio e agosto gli Imperi centrali tentarono il tutto per tutto nella seconda battaglia della Marna. La massa enorme di fanti teutonici sostenuta da decine di migliaia di cannoni si infranse contro gli eserciti franco-britannici, ora sotto il comando unico di Ferdinand Foch e supportati da mezzo milione di americani. Vi parteciparono anche tre divisioni italiane che si comportarono bene, ricambiando il servizio reso l’anno prima dagli alleati. Ai primi d’autunno la situazione era matura per la resa dei conti. Nella notte tra il 26 e il 27 ottobre i nostri arditi – armati di pugnali e bombe a mano – attraversarono il fiume su ponti precari, chiatte e persino a nuoto. Vi furono combattimenti corpo a corpo di violenza inaudita: quel tratto, oggi meta di gioiosi picnic, si chiama Isola dei Morti. Ma alla fine i nostri passarono di slancio, arrivarono a Vittorio Veneto mentre l’intero fronte collassava e le truppe austroungariche, sbandate e attonite, si arrendevano a migliaia. La terza battaglia del Piave, e la prima guerra mondiale, erano finite.