Il Messaggero, 13 novembre 2021
Intervista al campione di braccio di ferro Ermes Gasparini
Si chiama Ermes, come il messaggero degli dèi greci, ma avrebbe dovuto chiamarsi Eracle, vista la sua forza sovrumana. «È proprio così che frego gli avversari, con l’effetto sorpresa». Ermes Gasparini è il simbolo italiano del braccio di ferro, uno sport antico come il mondo che sta vivendo una grande popolarità grazie a Stati Uniti e Russia, dove è seguitissimo. Il ventottenne Gasparini, partendo dalla sua Verona, ha vinto quattro titoli mondiali e il 21 novembre è atteso a Mosca per affrontare il polacco Alex Kurdecha nel primo turno del Top 8, il torneo di armwrestling più importante che ci sia. Al suo fianco, il manager Massimo Naim, imprenditore e sponsor di Ermes, che essendo un grandissimo appassionato di braccio di ferro ha scommesso su Gasparini un anno fa. I due incontreranno oggi (ore 18.30) la stampa a Le Rêve de Naim di Via Mario de’ Fiori 5, in una delle suite di lusso nel centro di Roma gestite dal manager.
Da dove deriva la sua passione, ma soprattutto il suo talento?
«Mio padre Massimo è stato pluricampione italiano di braccio di ferro, e da piccino lo seguivo in tutte le gare, piangendo quando perdeva. Anche mia madre Cinzia ha fatto qualche gara da giovane, quindi la genetica mi ha certamente aiutato (ride, ndr). Ho tendini forti, una mano grande con dita lunghe e un polso imponente».
Cosa rende grande un armwrestler?
«La forza conta per il settanta per cento, la tecnica per il trenta. E poi bisogna studiare gli avversari: tutti hanno una tecnica di tiro preferita. La mia è detta top roll, e punta ad aprire il polso dell’avversario».
Come si allena?
«Ho una palestra con un socio, la Matter of Fitness a Settimo di Pescantina. Lì faccio pesistica, e ho anche un tavolino professionale da braccio di ferro in cui simulo incontri reali grazie a delle maniglie. Alleno la rotazione del polso e tanti, tanti piccoli movimenti».
Che tipo di alimentazione segue?
«Il mio nutrizionista Francesco Pelizza mi tiene a un regime ipercalorico: il nostro non è uno sport in cui si deve dimagrire! Prima di una gara mangio riso, per avere energia ma facile da digerire, mentre dopo mi bevo anche dieci birre medie (ride, ndr). D’altronde vengo dalla Valpolicella».
Il suo è uno sport dove il rischio infortunio pare abbastanza alto
«Sì, parecchio. Ci facciamo male soprattutto a muscoli e tendini. Io ho rischiato di smettere, ma per un altro motivo: sono nato con l’ulna del braccio destro più lunga del normale, e nel 2017 mi hanno dovuto operare a Milano accorciandomi il braccio. Sono stato fermo quasi tre anni, devo ringraziare la dottoressa Jane Messina che mi ha salvato la carriera».
Cosa si aspetta dall’esordio nel Top 8 in Russia?
«Contro Kurdecha, un colosso di 150 chili, parto favorito. Poi ho uno stimolo in più perché il 21 novembre sarebbe stato anche il compleanno di mio nonno Elio, da cui ho ereditato queste mani così grandi».
In Italia il braccio di ferro esiste da trent’anni, ma il boom è recente. Merito dei social?
«Sì, e anche del powerlifter Larry Wheels, che sfidando per gioco tanti campioni di braccio di ferro ha attirato su di sé l’attenzione di diversi youtuber italiani, che a loro volta si sono rivolti a me. Abbiamo quindi realizzato parecchi video e gli appassionati stanno aumentando».
Domanda scontata: quante volte ha visto Over the top, il film cult sul braccio di ferro con Sylvester Stallone?
«Almeno dieci volte! È stato il primo exploit mondiale del mio sport, pur se molto romanzato. John Brezenk, a cui il personaggio di Stallone è ispirato, è la leggenda di questo sport e sono orgoglioso che mi abbiano paragonato a lui».
Dopo una gara i dolori sono tanti?
«Eccome! Dopo ciascun incontro facciamo almeno dieci giorni di riposo completo. Ma io ho lavorato per anni nelle cave di marmo di mio papà, estraendo i blocchi dalla montagna: sono abituato a certe cose».