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 2021  novembre 13 Sabato calendario

In morte di Giampiero Galeazzi

Antonio Dipollina, la Repubblica
Era autore di pezzi unici passati alla storia televisiva. E al tempo stesso era un esemplare perfetto, e del tutto dentro il suo tempo, di adesione al mestiere: tempi di esplosione della popolarità dello sport televisivo, di Rai a gestire tutto e quindi anche di tempi da cambiare (si-poteva-fare) mostrando come poteva evolversi, anche in popo-larità, il racconto live dello sport rispetto a tutto quello che c’era stato prima.
Giampiero Galeazzi se n’è andato ieri a 75 anni, stremato dal diabete e dalla fatica di vita che comporta, si era pentito di una recente apparizione in tv dall’amica Mara Venier, dovette presentarsi in carrozzina e i commenti che lesse dopo, essendo già piena era social, non gli piacquero. Mi hanno già fatto il funerale, disse: mancavano invece tre anni ma soprattutto quel momento era le mille miglia distante dalla travolgente presenza dentro decenni di sport televisivo, con l’irruenza e la facilità quasi irridente con cui portava a casa colpi miracolosi, inventando lì per lì (il microfono consegnato a Maradona nello spogliatoio della festa scudetto del Napoli), o battute dei protagonisti che per qualche motivo, forse sempre un po’ intimiditi dall’imponenza dell’interlocutore, volevano fare bella figura davanti a quel microfono.
Ma appunto c’era una tonnellata di mestiere da portarsi appresso: valga per tutte quella telecronaca, la seconda più celebre, dell’oro olimpico a Sydney nel K2 di Bonomi&Rossi: volendo, la telecronaca della vita Galeazzi l’aveva già fatta – a Seul con gli Abbagnale, ovvio – poteva cavarsela di rendita e invece, ascoltare per credere, la voce che si alza ad arrochirsi nel grido è anche la voce continua, pagaiata dopo pagaiata, a dare conto del numero dei colpi e dei distacchi esatti in quel momento. E solo a un metro dalla linea lo svolazzo: “Si guarda a sinistra, si guarda a destra” urlato, e a seguire un “E vince l’Italia” riafferrando al volo la voce che se n’era andata. Era dodici anni dopo gli Abbagnale e quanto era bello il tempo scandito in quadrienni olimpici: i Fratelloni e Peppiniello e Galeazzi che diventa il quarto elemento, dentro una telecronaca da leggenda perché da leggenda era l’impresa, prima di tutto, e c’era dentro anche materiale simbolico della storia, la barca che alla fine rinviene pericolosamente – e Galeazzi urlava quasi a ricacciarla indietro – era quella della Germania Est, era il 1988, segnali di muri acquatici che cadevano.
Galeazzi aveva riempito ore e ore di sport di livello top, il canottaggio lo aveva dentro perché era stato atleta nazionale di primo piano, ma il canottaggio è una botta ogni quattro anni e via. E c’era stato il tennis quando il tennis sbocciava alla popolarità tv sempre via Rai, ma al tennis si sta composti e si sa. La sua presenza, in Rai monopolistica, nel racconto del calcio, è invece una miniera di spunti e occasioni, centinaia di ore a gestire i 90° Minuto e gli studi dedicati alla Nazionale, Mondiale dopo Mondiale anche se lo stigma dell’inviato che si buttava e, senza concorrenza alcuna, entrava da qualunque porta di stadio era la sua cifra definitiva.
Negli anni ‘90 arrivò la botta da showman, complice appunto Mara Venier e quelle domeniche in una Rai che anche in questo caso viveva gli ultimi scampoli da tv unica, con spettatori a milioni qualunque cosa ci fosse. Faceva i numeri a Domenica In e francamente se ne infischiava delle polemiche successive. Non c’è un solo giornalista che lo abbia conosciuto che non stia ripensando a un aneddoto personale con Galeazzi, sempre cose divertenti. E tutti insieme stanno recitando le gag più note di Bisteccone – soprannome rimasto scolpito – tra tenerezza e rimpianto. E comunque quando c’era Galeazzi in tv era, diranno tutti anche questo, tutta un’altra storia.

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Mario Sconcerti, Corriere della Sera
Se devo raccontare la prima cosa che mi viene in mente di Giampiero è il suo sorriso, quella lunga risata grassa, un po’ impostata da eroe televisivo, ma sincera, contagiosa. Era un giornalista da commedia dell’arte, improvvisava, il canovaccio era lui. E sapeva diventare subito un pezzo del mondo che doveva raccontare. Lui c’era sempre, nella calma di uno studio televisivo, nella fretta e nella lotta dei grandi spogliatoi di tutto il mondo, dove era necessario guadagnarsi il posto di battaglia migliore. E quando intervistava in diretta sembrava avesse vinto lui, non l’altro.
Lo spettacolo per noi ragazzi di giornalismo era capire come avesse fatto Galeazzi a trovarsi davanti a Maradona il giorno dello scudetto, a bere champagne con lui mentre noi eravamo ancora oltre la porta ad ascoltare una festa di altri. Così avevo imparato: quando lo vedevo muoversi in uno stadio, in un’Olimpiade, quando c’era profumo di impresa e lui cominciava a sgranchire la sua grande mole, io gli andavo dietro. Passavo i suoi stop quasi coperto dalle sue spalle. Lui era Bisteccone e io Sconcertino. «Vieni come me» mi diceva. Non c’è mai stata amicizia, c’era simpatia, il suo piacere di indicarmi il mestiere, di mostrarmi quello di cui era capace.
Non ho mai capito realmente chi fosse, la sua vita raccontata era piene di cose straordinarie e contraddittorie. Così grande e grosso, così goloso, così popolare e romano, eppure laureato in Economia statistica, materia dottorale, profonda, scientifica, mentre Giampiero sembrava tutto fuorché uno scienziato. Era un uomo di tutti, felice di avere avuto tanto e poter restituire, felice del suo lavoro di corsa, elementare come essere davanti a un albero e farlo parlare.
Eppoi aveva qualcosa nei modi di porsi che avevo visto solo in Gianni Minà. Piaceva ai suoi interlocutori, ne diventava la confidenza. Era facile parlare con Giampiero perché non tradiva, era rimasto atleta, sapeva cosa cogliere e cosa dimenticare. I suoi soggetti gli rimanevano fedeli come Maradona, Clay a Minà. Gianni più selettivo, più colto, più da film che da intervista rubata in uno spogliatoio, ma con lo stesso principio totale.
Non credo che Giampiero sia diventato un maestro. È stato troppo unico per lasciare lezioni. Appariva improvvisamente dove lo sport contava, era come l’ invitato d’onore a un matrimonio. Se non c’era lui, non era un grande matrimonio. Non sono cose che puoi insegnare. Io infatti mi limitavo a seguire il suo corpaccione in movimento e a invidiarlo. Faceva domande normali e tu sentivi che aveva un grande senso giornalistico anche quando diceva «Come stai? Cosa si prova?». Faceva paesaggio, atmosfera, era lui che dava colore. Le avessi fatte io col taccuino in mano sarebbero state patetiche. Lui con la sua altezza, il microfono, gli abitoni chiari e stirati, illuminava la scena e la puliva da qualunque banalità. E i campioni erano contenti di averlo intorno, si sentivano gratificati. Impensabile oggi.
A volte mi sembrava eccedesse. Era diventato presenzialista, faceva forse troppe parti, mentre era soprattutto un giornalista sportivo, già lieve in partenza, e per me un mestiere che deve rimanere sempre un po’ quello del monaco. Ma amava piacere alla gente, credo abbia vissuto la vita e la professione come un lunghissimo banchetto, una tavola dove ci si prende in giro e si ricorda, non si creano problemi. Ed è arrivato ad essere tante cose diverse, forse il primo vero giornalista tv nazionalpopolare.
L’estate ci ritrovavamo in un albergo del Circeo. In costume Giampiero sembrava un monumento di Botero. E quando si alzava dalla sdraio per tuffarsi in piscina, la gente si raccoglieva ai bordi come al risveglio di un vecchio amico che sorprenderà. Prendeva una breve rincorsa poi saltava. E una montagna d’acqua saliva da ogni parte. Poi metteva la testa fuori a e aspettava l’applauso educato della gente. Anche quella volta aveva fatto il suo dovere di istrione.

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Piero Mei, Il Messaggero
«Andiamo a vincere»: quello che potrebbe essere un claim dello sport italiano dei nostri giorni, ha risuonato ieri per l’etere, tutte le tv e tutte le radio, con la voce entusiasmante dell’uomo che lo pronunciò e quasi ci fece tutti andare a vincere, con i fratelli Abbagnale o con Panatta, con la sua Lazio o con la Roma, con Maradona o con Materazzi, con la erre arrotata di Gianni Agnelli o con la coinvolgente zia Mara, Mara Venier. Il coinvolgente, sempre e in realtà, era lui, l’inventore di quell’andiamo a vincere che vale almeno quanto il campioni del mondo scandito tre volte a Madrid da Nando Martellini o, andando indietro, l’uomo solo al comando di Mario Ferretti. Siamo, come si vede, nel mito. Il copyright dello slogan appartiene a Giampiero Galeazzi, che ieri, a 75 anni, se ne è andato per sempre, come dopo un suo gioco, partita e incontro, portato via dal diabete che lo tormentava e affievoliva nel fisico ma non nello spirito. Lo chiamavano Bisteccone. Perché era grosso e perché, soprattutto, aveva un approccio alla Alberto Sordi con il cibo, maccherone, tu m’hai provocato e io me te magno. Sulla voracità di Bisteccone girava anche un aneddoto fin troppo abusato: di ritorno da un soggiorno in una celebre clinica della salute, quella di Messeguè, aveva incontrato uno dei tanti amici che aveva fra studi tv e circoli romani che gli aveva chiesto dove sei stato che è un po’ che non ti vedo? e, alla risposta da Messeguè ottenne in risposta dall’amico che lo squadrò dalla testa ai piedi: E te lo sei mangiato?, a sottolineare che il soggiorno non aveva avuto gli sperati effetti. 
Era stato un forte atleta, in gioventù, un canottiere, anche campione d’Italia e pure in predicato per diventare olimpico in occasione di Messico ’68. Poi s’era dato al giornalismo, presto catturato dalla Rai. Le gare di canottaggio non le raccontava: le viveva. La sua non era la partecipazione studiata a tavolino di qualche telecronista d’oggi con la bella frase prescritta, nel senso di scritta prima, da pronunciare come effetto speciale alla buona occasione, e spesso, per non sprecarla, anche a quella cattiva. Galeazzi no: aveva nella spontaneità il suo segreto, ed era una spontaneità di radice nazional-popolare, molto romana o, detto con rispetto culturale, romanesca, pure se le origini paterne erano piemontesi. Tifava Lazio e non lo nascondeva, come fanno quelli che vogliono apparire imparziali: lui lo era senza esserlo. Così trattava allo stesso modo i campioni: da amico? Forse. Da complice di un racconto da far vibrare nell’animo del telespettatore, come quando, nascosto con la complicità del massaggiatore Carmando nello spogliatoio del Napoli in occasione dello scudetto, appioppò il microfono a Maradona in mutande e lo trasformò in cronista d’assalto. Vallo a fare oggi, tra buttafuori e quant’altro, quando il distanziamento voluto non è solo una sacrosanta necessità da Covid ma una imposizione per tagliare fuori l’informazione dalle segrete cose, quelle vere. Ma forse uno con la faccia tosta, in senso positivo, con l’umanità prorompente di Giampiero Galeazzi potrebbe riuscirci anche questa volta. Sapeva alzare il tono di voce e abbassarlo, secondo la necessità: a bordo campo, nei giorni del tennis e di Panatta (e mettiamoci anche Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli, i quattro che vinsero la Davis con Capitan Nick, cioè Pietrangeli). Sapeva non disturbare la concentrazione del campione, pure standogli vicino vicino, e nessuno sbroccava a quei tempi felici. E, dal divano, poteva sembrare a tutti di stare vicino vicino. E di abbracciare con lui Liedholm, il giorno che la Roma vinse lo scudetto, che il Barone sembrava scomparire fra quelle braccia, ma quand’era così nessuno aveva il tempo di ponderare la risposta alla domanda di Bisteccone e tutto era più vero, o verace che è meglio. Come quando lasciò gli Internazionali di tennis per andare a festeggiare con i suoi correligionari biancocelesti, e dunque anche a raccontarlo, lo scudetto della Lazio. Incontrò un sacerdote e gli chiese: Padre, ha pregato per questo? gli chiese, simpatico e sfacciato. Mica le algide interviste a domanda e risposta scontate che ti sono consentite oggi a bordo campo o nelle conferenze stampa a copione. 
Galeazzi non era mai prefabbricato, e dunque nemmeno le risposte perché gli intervistati erano presi quando ancora non avevano potuto premunirsi. A bordo campo o nello studio tv, da dove ci calò dentro la retata da giustizia spettacolo, quando la Pantera della polizia entrò sul prato dell’Olimpico per cercare i ricercati che non avrebbero mai avuto vie di fuga ed era la prima scena del calcio scommesse, da 90° Minuto, una delle trasmissioni Rai più amate insieme con la Domenica Sportiva quando non ci si perdeva fra canali, cronache e buffering. Era un grande momento di cultura pop, e Bisteccone la incarnava. Giampiero Galeazzi è stato anche altro, in radio e no: con Pippo Baudo a un Festival di Sanremo, con Mara Venier a Domenica In (che successo! Che ondata di umanità!), ha perfino prestato la voce cinematografica a Mr Swackhammer, l’antagonista in Space Jam. E ha dato la voce anche a molti imitatori che ne hanno fatto cavalli di battaglia, facendoci sorridere ancora. Non è vero che l’emozione non ha voce: spesso, invece, quando era il momento, ha avuto la voce di Giampiero Galeazzi, detto Bisteccone.